Le aperture continuano e le bottiglie di champagne non mancano alle inaugurazioni. Nella moda la febbre da negozio ha perso lo slancio degli ultimi anni, ma l'espansione non si ferma. è cambiata la strategia: molti marchi sono già dove volevano essere e hanno ridimensionato i programmi di aperture, oppure vogliono raccogliere i frutti di investimenti enormi, si concentrano su alcune operazioni simboliche con costi alti e un ritorno d'immagine della stessa portata. O semplicemente cambiano il modo di fare negozi.
La distribuzione comunque si muove. Anche in tempo di crisi. Prada ha speso quasi 80 milioni di euro a Tokio per aprire il suo «Epicentre concept store», un gigante di sei piani nel pieno del quartiere Aoyama. I nuovi punti vendita di Giorgio Armani quest'anno saranno trenta, ai quali si aggiungono undici rinnovi.
II 70% del fatturato del marchio Gucci arriva dai negozi diretti e negli ultimi due anni il gruppo ha fatto salire dal 32,5% al 57% la quota di ricavi di Yves Saint Laurent realizzati nei punti vendita diretti. Nell'ultimo anno, il gruppo ha aperto trentanove negozi ma il 2003 segna una svolta: «Dopo aver investito oltre 200 milioni di euro nei negozi nel 2001 e nel 2002, da quest'anno le spese di capitale saranno ridotte notevolmente». Sui negozi la spesa è di 100 milioni di euro. De Sole è soddisfatto dei risultati di settembre («La crescita a due cifre è in Europa e America, oltre che in Asia» e scommette sulla Cina per il futuro: «Sarà il motore portante per tutti i beni di lusso».
In Cina oggi i negozi italiani sono 400. «Nel giro di dieci anni potrebbero essere 2-3mila», dice il consulente Carlo Pambianco, convinto che in tutto il mondo «la tendenza ad avere propri negozi continuerà nel futuro, ad ogni costo. In alcuni casi, i ritorni economici sono lunghi, ma quelli di immagine sono garantiti».
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Estratto da Il Sole 24 Ore del 3/10/03 a cura di Pambianconews