Se si guardano gli ultimi dati dell'Ice (Istituto per il commercio estero) quello messo meglio è il tessile-abbigliamento: -8,7% di export verso l'Unione europea nei primi sei mesi di quest'anno. I mobili hanno realizzato un -13,2% e i prodotti in cuoio un -11%. Spostandosi nei Paesi extra Ue la situazione non cambia: l'arredamento segna un -10,7% e il settore manifatturiero (numeri più dettagliati non ci sono ancora) addirittura un -20,5% che sconta il calo del 12,5% sul mercato americano. Il made in Italy è in crisi da più di due anni e se anche alcuni grossi nomi, come Gucci o come Bulgari, offrono qualche segnale di speranza, tra gli imprenditori c'è grande preoccupazione. Spaventa, soprattutto, l'avanzata della Cina, che con le sue produzioni a prezzi stracciati e con i suoi prodotti contraffatti sta insidiando pesantemente proprio un settore cardine dell'economia italiana. Gli abiti sono la prima merce «made in China» venduta sul nostro mercato e sottraggono quote ai prodotti italiani all'estero, per esempio su un'area importantissima come quella degli Stati Uniti.
Tanto che persino una persona moderata come Mario Boselli oggi arriva a dirla, la parola «dazi». Imprenditore e presidente della Camera nazionale della moda, l'organizzazione che rappresenta i grandi stilisti, Boselli chiede una «mobilitazione europea che porti alla creazione di gruppi specialistici, per settori merceologici o per macro-settori, che indaghino preventivamente sui fenomeni di dumping sociale ed ecologico e applichino dazi mirati». Domani porterà la proposta al consiglio della Camera della moda.
«In innumerevoli casi, dice il presidente della Camera nazionale della moda, anche nel mio mondo, una materia prima o un semilavorato costano di più se li compriamo noi di quanto costi un prodotto finito cinese». Ancora, un «sistema finanziario che supporta, con rifinanziamenti a titolo gratuito, aziende che sono giunte al capolinea, creando distorsioni della concorrenza. Non solo: i cinesi hanno già detto che delle nostre vicende come Basilea 2 non se ne importano nulla, sono regole che non applicheranno». Quarto, «un beneficio all'esportazione, che secondo i nostri calcoli è attorno al 17%, dato da un'imposta che assomiglia alla vecchia Ige italiana. Infine, la Cina ha imposte sul reddito del 19%: beninteso, è una cosa perfettamente legale ma è quasi la metà di quello italiano». «Se si sommano tutti e cinque i fattori che ho detto, la situazione diventa devastante. D'altra parte, si è già visto cosa succede quando arrivano i cinesi, per esempio nei giocattoli, dove qualcuno si è salvato perché aveva una rete distributiva ed è andato a produrre in Cina. Fanno danni irreparabili. E ora sta per accadere la stessa cosa a fasce importanti del tessile-abbigliamento».
Estratto da CorrierEconomia del 8/09/03 a cura di Pambianconews