«Niente polemiche: voglio solo lanciare un messaggio a chi può fare qualcosa. Il made in Italy non va più. C'è bisogno di cambiamenti forti… ». Ma non c'è da fidarsi di Diego Della Valle quando dice che non vuole polemizzare. Perché ce ne sono pochi come lui che hanno il gusto di prendere di petto, di provocare l'avversario, di vederlo in difficoltà e poi di irriderlo. Con il presidente della Confindustria, Antonio D'Amato, di cui Mister Tod's non è mai stato un fan, è successo spesso: Della Valle a dare martellate in convegni e interviste, l'altro a incassare. «Alla fine mi ha telefonato. Mi ha chiesto perché ce l'hai con me. Non ce l'ho con te ma con quello che fai, gli ho risposto». E adesso, a suo parere, il settore ha bisogno di una bella scossa. «Nei giorni della moda maschile, tra Pitti e Milano, ho visto sfili tristanzuole, collezioni non entusiasmanti, insomma un appiattimento, un sonno, un'anemia, un tiriamo a campare…».
Con chi ce l'ha, Della Valle?
«Non faccio nomi. Mia madre mi ha insegnato a non parlare male degli assenti. Ma questo mestiere è fatto di messaggi. E quelli che ho appena visto lanciati dalle passerelle non mi piacciono. Ho due figli, e non mi va che il loro modello sia quel ragazzotto che sfila e sembra uno squinternato. O il calciatore che va dietro alle veline. Non mi piace che mio figlio si identifichi con un mondo effimero, che non rappresenta nulla. Oggi si può presentare un ottimo prodotto mettendoci un po' di cultura o di solidarietà. Bisogna smetterla di fare la cenetta, la sfilatina, che non servono a nessuno, se non all'egocentrismo di chi vede il titolo sul giornale la mattina dopo».
Ma l'industria del lusso gioca proprio su questo: la provocazione, l'estremizzazione, l'ambiguità. Anche lei fa parte dello stesso circo.
«Sì, ma ogni messaggio ha il suo momento. E come padre considero deprecabile far uscire in passerella qualcuno che dà un messaggio distorto e trasgressivo. Mettiamoci anche un po' di etica. II sogno, la solidità dei prodotti, la cultura, possono stare insieme. Certo, posso capire che a 70 anni si fatichi a seguire la sensibilità di un mercato che vuol parlare a un ventenne. Ma allora, facciamo largo ai giovani».
Che cosa propone?
«Di mettere in piedi una task force di grande qualità che studi un progetto serio».
Per fare che cosa?
«II made in Italy sta morendo. lo vengo da un paesetto in mezzo alla più grande concentrazione di fabbricanti di scarpe del mondo, Sant'Elpidio nelle Marche. E ho visto esplodere il benessere e gemmare nuove aziende, credo che ce ne siano cinquemila, e adesso osservo un territorio che muore: una lenta agonia, con fabbriche che via via chiudono. Fare oggi le scarpe in Italia, se non si ha un grande marchio, e se nel marchio non c'è una forte innovazione, non ce la si fa. Ma se fai anche solo delle ciabatte da 10 euro, ma sono migliori di quelle cinesi perché ci hai messo dentro dell'innovazione, allora sei salvo».
Che aiuto chiedete?
«Questo settore deve essere incentivato per ricerca. è fatto soprattutto di aziende di piccole dimensioni, con 15 dipendenti in media, che vanno a caccia dei mercati accodandosi ai grandi gruppi. Ma rischiano ogni giorno di più. La loro unica salvezza è l'innovazione, ma i soldi per la ricerca non li hanno: allora detassiamo la spesa per l'innovazione».
Vedi tabella che segue
Estratto da L'Espresso del 4/07/03 a cura di Pambianconews