Per molto tempo è stato un argomento di cui si parlava, ma non pubblicamente. Anzi. E' possibile che un'azienda del lusso delocalizzi la sua produzione? «No», è sempre stata la risposta in coro: il made in Italy si fa in Italia, solo così si difende la qualità e, di conseguenza, ci si difende dalla concorrenza dei Paesi asiatici, Cina in primo luogo. Ma di recente Patrizio Bertelli, presidente di Prada, ha dichiarato che «ulteriori risparmi li otterremo con la decentralizzazione produttiva nell'Europa dell'Est: Polonia e Ungheria sono molto interessanti». Interpellato su questo tema Bertelli precisa che, in realtà, non si tratta di progetti attualmente in corso e nemmeno in via di def�nizione, ma di un'idea futura possibile. E che oggi la produzione del gruppo è interamente concentrata in Italia.
La strada di produrre nei Paesi dell'Est e in Turchia è stata presa, per esempio, dal primo produttore mondiale di abbigliamento maschile di alta gamma, la tedesca (ma di proprietà italiana) Hugo Boss. Secondo la società, infatti, che ha 17 filiali nel mondo e una presenza in 108 Paesi, il luogo di produzione «non è determinante. La differenza del costo del lavoro nei Paesi dell'Est, dicono al gruppo di Metzingen, viene naturalmente presa in considerazione, ma non esiste ragione di centralizzare la produzione e di essere legati a un posto specifico».
E Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda e imprenditore in proprio, dice che «è inutile frenare la storia, anche se non è detto che tutti i settori saranno toccati dalla delocalizzazione produttiva, o che saranno toccati allo stesso modo. Tra le aziende del nostro gruppo, per esempio con Yarns siamo già andati in Slovacchia, mentre con Jersey non ci pensiamo nemmeno. Nei filati, infatti, c'è una forte incidenza della manodopera, quasi il 20%, il doppio che nel jersey e un gran consumo di energia (che non c'è nel jersey) e tra Italia e Slovacchia c'è una differenza del 50%».
Estratto da CorrierEconomia del 10/03/03 a cura di Pambianconews