Un freno improvviso. E così violento da far uscire dalla corsa alcuni e da mettere a repentaglio molti altri. Sicuramente, da trasformare le aziende dall'interno e da spingerle a ridiscutere definizioni e confini a partire da quella stessa di lusso, peraltro già indebolito dall'attacco dei no logo. Che il lusso sarebbe stato tra i primi e più importanti settori dell'economia a essere colpiti dalle conseguenze provocate dagli attacchi alle Torri gemelle era apparso chiaro fin dall'inizio. E non solo per la recessione che ha toccato tutti. Qualcuno, però, qualche beneficio lo ha avuto. Dice, infatti, Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda, che ha avuto conferma «quell'effetto-cocoon (bozzolo) di cui si era parlato. Si è stati più a casa che fuori e quindi il design, il mobile ma anche il tessile per la casa, sono andati bene».
Sui bilanci di Lvmh, Burberry, Gucci, Swatch, Bulgari, Prada, Patek Philippe, Hermès e Tiffany, gli acquisti dei turisti pesavano più del 30%, secondo la classifica di Merrill Lynch stilata lo scorso novembre. E i turisti giapponesi, quelli che prima dell'11 settembre facevano le code davanti ai negozi, rappresentavano oltre il 40% per Lvmh, Burberry e Gucci. Un bel guaio. Lvmh, per esempio, ha pagato la sua presenza nei duty free shop degli aereoporti, comparto investito pesantemente dalla crisi. E se i giapponesi nel corso di questi mesi hanno dirottato gran parte del loro desiderio di lusso sul mercato interno, dando un po’ di respiro alle società, ancora oggi un'area non di poco conto come le Hawaii rappresenta fonti di grosse perdite. E ogni notizia su tensioni internazionali – come quelle di oggi con l'Iraq – rischia di far perdere le posizioni recuperate.
Per non dire degli Stati Uniti, dove il sistema realizzava nel suo complesso (fonte, Pambianco Strategie d'Impresa) quasi un quarto dei suoi ricavi, con punte di oltre il 40% per Safilo, di oltre il 30% per Ferragamo e Zegna, più del 25% per Armani e Prada… Un mercato che si è chiuso da un giorno all'altro (i grandi department store tagliarono immediatamente gli ordini, anche quelli già confermati, chiedendo sconti e puntando solo sui nomi più sicuri) e che ancora oggi fatica a riprendersi nonostante qualche segnale qua e là. Un mercato che in questi ultimi mesi registra in più il problema di un dollaro debole sull'euro.
Per chi aveva spalle larghe e denaro in cassa (Gucci) o impostato strategie focalizzate al core business (Armani e Tod's) è stato più facile confrontarsi con una repentina e inattesa chiusura, e magari crescere ancora. Altri, che per espandersi avevano dovuto rivolgersi alle banche, si sono ritrovati più deboli. Il ricorso al debito, per esempio, è stato, è, il grande problema di Prada, vero fenomeno degli Anni Novanta. E, in forma più acuta, per gruppi minori come Finpart. I bilanci del 2001 testimoniano la crisi, ma sono i risultati del primo semestre 2002 che ne manifestano la gravità. «Abbiamo avuto un semestre ottobre-marzo di ghiaccio, da paura – dice Boselli -. Il secondo trimestre di quest'anno non è stato buono, ma almeno si è fermata la discesa».