Il giorno degli attentati alle Torri gemelle di New York l’industria del lusso aveva temuto che gli anni ruggenti di fine secolo fossero definitivamente chiusi. Sette mesi dopo nessuno giura sullo scampato pericolo, ma tutti concordano nel dire che il peggio è passato. Perché la speranza dei produttori si trasformi in convinzione, è necessario che arrivino una serie di conferme: l’effettiva ripresa dei consumi americani, assieme al ritorno dei turisti giapponesi, da sempre agguerriti frequentatori di boutique.
«La loro presenza negli Stati Uniti è ancora inferiore del 70 per cento rispetto alla norma, mentre su altre destinazioni il calo si è ridotto al 20 per cento», spiega Antonio Belloni, numero due della francese Lvmh, il maggior gruppo al mondo di beni di lusso che, nel bilancio 2001, dopo l’11 settembre ha dovuto spesare oneri di ristrutturazione di 446 milioni di euro per le perdite nei negozi di profumeria e nei duty free.
Per spiegare il calo di redditività che molti gruppi hanno accusato nel 2001, non bastano però i mutevoli umori del nuovo consumatore. In realtà le aziende del lusso sono state colte dalla crisi dell’11 settembre in mezzo al guado di un profondo cambiamento nel settore, culminato nell’acquisizione a tappe forzate di marchi grandi e piccoli da parte di alcuni, selezionati, protagonisti su scala mondiale. Acquisizioni, va detto, spesso effettuate con i soldi delle banche.
Secondo Carlo Pambianco, nell’ultimo quinquennio in testa alla corsa c’è Lvmh con 36 acquisizioni, fra le quali spiccano Pucci, Donna Karan, Krug e Fendi, seguita da Gucci con quindici (fra le altre Yves Saint Laurent), da Burani con quattordici (Mila Schon) e da Prada con otto (Jil Sander, Church’s). Il risanamento e il rilancio dei marchi ha però pesato sui bilanci degli acquirenti. Se si guardano i due principali gruppi del mondo, l’utile netto di Gucci nel 2001 è passata da 336,7 a 278,4 milioni di dollari, mentre quello di Lvmh è sceso da 722 a 10 milioni di euro.
Anche Armani, che pure ha concentrato le proprie operazioni sul lato produttivo e non nell’acquisto di nuovi marchi, ha visto l’utile netto diminuire (meno 9,8 per cento a 110 milioni di euro) per effetto degli investimenti effettuati, mentre a livello di risultato operativa il miglioramento rispetto al 2000 è stato del 3,8 percento (a 246 milioni di euro).