Si allunga la lista dei firmatari del Fashion Industry Charter for Climate Action, il documento che ufficializza l’impegno di alcune aziende della moda al rispetto degli accordi di Parigi sul clima. Tuttavia, al momento, evidenzia un’assenza importante: quella del lusso italiano.
Se infatti, da ieri, tra le aziende che supportano l’impegno delle Nazioni Unite c’è anche Nike, numero uno dello sportswear mondiale, la ‘quota italiana’ è affidata solo alla veronese Pidigi, fornitore di materiali, accessori e componenti per l’industria tessile da circa 45 milioni di euro di fatturato. Mancano, invece, i nomi più altisonanti della moda made in Italy, sebbene alcuni di questi ultimi siano presenti indirettamente, in quanto controllati del gruppo Kering, che ha siglato il documento delle Nazioni Unite a dicembre 2018.
L’assenza italiana è ribadita anche sul fronte delle associazioni, nel cui elenco non ci sono organismi del made in Italy.
La distanza italiana da un progetto come il Fashion Industry Charter for Climate Action non va necessariamente intesa come una prova di ritardo nei confronto della sostenibilità. Spesso, anzi, la semplice adesione a task force o network internazionali può essere controproducente, se non accompagnata da un impegno strutturale.
Tuttavia, in questo caso l’assenza stride con i molteplici impegni pubblici lanciati da aziende e associzioni made in Italy.
Il Fashion Industry Charter for Climate Action, riflesso della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è stato stilato nel 2018 da aziende e organizzazioni che hanno individuato le direttive d’azione per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile e dell’abbigliamento. L’obiettivo primario, che riguarda le aziende aderenti, è quello di diventare player “net-zero emissions”, quindi a zero emissioni di gas serra, entro il 2050. Questo documento è stato lanciato alla COP24 sul clima di Katowice, in Polonia, alla fine dello scorso anno.
Nike, che appunto è tra i firmatari più recenti, punta a una riduzione del 30% di emissioni di gas serra per i suoi impianti entro il 2030, per poi procedere in direzione carbon neutral entro il 2050. “Questioni tanto ampie e complesse quanto i cambiamenti climatici ci impongono di collaborare in tutto il nostro settore e non solo”, ha dichiarato Noel Kinder, chief sustainability officer di Nike, in un comunicato stampa. Ad oggi il colosso dello swoosh è già membro del United Nations Global Compact, accordo che promuove uno sviluppo sostenibile del business, ed ha legato il suo nome all’iniziativa globale RE100, che coinvolge 160 aziende nel mondo e monitora l’utilizzo di energie rinnovabili.
L’adesione di Nike rinforza ulteriormente l’incidenza dello sportswear nel Fashion Industry Charter for Climate Action, dove già figurano, tra gli altri, Adidas, Salomon, Peak Performance, VF Corp, New Balance e Puma. A rappresentare l’alto di gamma ci sono Kering, Burberry, Hugo Boss e Stella McCartney, mentre il fast fashion vede la presenza di entrambi i competitor Inditex ed H&M. Tra i nomi più noti del mondo jeans, invece, ci sono Levi’s e Denim Expert Limited.
Interessante, infine, il caso di The RealReal, che lo scorso aprile, in occasione dell’Earth Day, è stata la prima azienda del mercato resale ad aderire all’iniziativa.
Il Fashion Industry Charter for Climate Action inquadra oggi un vincolo formale che punta a essere via via misurabile. Oltre a ridurre in modo significativo le loro emissioni di gas serra, i firmatari si sono infatti impegnati a utilizzare materiali a basso impatto, nonché a quantificare, tracciare e riportare pubblicamente le loro emissioni. Hanno anche affermato che collaboreranno con esperti per strutturare un percorso di decarbonizzazione per l’intera industria della moda.
Nel lusso, ad oggi, la filosofia green ha riguardato soprattutto i molteplici addii all’utilizzo di pellicce animali o pelli esotiche: ad annunciarlo sono stati, ad esempio, Chanel, Prada, Jean Paul Gaultier, Gucci, Armani e Versace.
È ancora difficile, tuttavia, avere un quadro preciso degli impegni ambientali che si sono tradotti in realtà. Nonostante le dichiarazioni frequenti, infatti, un recente report di Global Fashion Agenda, Boston Consulting Group e Sustainable Apparel Coalition ha messo in luce come gli sforzi dell’industria della moda per ridurre il suo impatto non crescano tanto velocemente da compensare i risvolti che il suo sviluppo ha sull’ambiente e sulla forza lavoro. Benché la performance sociale e ambientale del settore sia migliorata nell’ultimo anno, la velocità di questa progressione è diminuita “di circa un terzo”. I miglioramenti farebbero per lo più capo a brand che stanno gettando le basi della loro strategia di sostenibilità, fissando gli obiettivi primari e una governace migliore. A rallentare sarebbero invece le soluzioni di grandi aziende che già hanno fatto i primi passi e che ora sono chiamate a rendere più sistemici i cambiamenti attuati.