La crisi economica in Turchia sta mettendo alle strette numerose imprese, soprattutto quelle esportatrici di tessile e abbigliamento. Solo nei primi sette mesi del 2024 sono state quasi 15 mila le aziende che hanno dichiarato il fallimento, costrette a chiudere i battenti e mandare a casa i propri lavoratori. Un numero in aumento del 28% rispetto al 2023, secondo la Tobb, l’Unione delle camere e delle borse merci del Paese.
Dati allarmanti che rendono conto delle difficoltà in cui versa il settore in Turchia, una fonte fondamentale per molti marchi europei da Inditex a Mango e H&M, ma che scivola al 6° posto nella classifica dei primi 15 Paesi produttori di tessile e abbigliamento nel mondo, secondo il rapporto Euratex 2024. Con una quota di export pari a 33 miliardi di euro, si vede superato da India, Bangladesh e Vietnam, ancora lontani, comunque, da raggiungere il tetto di Ue (218 miliardi di euro) e Cina (al primo posto con 314 miliardi).
Tuttavia, la sua quota del mercato europeo era già scesa al 12,7% nel 2022 rispetto al 13,8% del 2021, sintomo di un ‘ritorno alla normalità’ per gli importatori europei dopo il nearshoring degli anni della pandemia, quando in molti si erano rivolti alla Turchia per ridurre i costi di trasporto e le interruzioni nella supply chain. A emergenza rientrata, la combinazione tra il crollo dei costi di spedizione e l’aumento dell’inflazione interna ha attenuato il vantaggio competitivo di Ankara.
Oggi, a pagare il prezzo di una politica restrittiva che dura da più di un anno, con un tasso di interesse di riferimento del 50%, per frenare anni di inflazione alle stelle – l’aumento, che aveva raggiunto il 75% a inizio 2024, è sceso al 52% il mese scorso – e di domanda surriscaldata, sono migliaia di imprese che, con le loro chiusure, trascinano con sé gli anelli più deboli della catena di fornitura, aumentando il rischio di disoccupazione.
Sono anche la sopravvalutazione della lira e l’aumento dei prezzi di elettricità, gas e manodopera a spaventare i produttori turchi del tessile e abbigliamento, che temono di non riuscire a reggere la concorrenza dei principali rivali: Vietnam e Bangladesh. “Considerando l’attuale tasso di cambio della moneta e l’ulteriore aumento del salario minimo previsto per il 2025, penso che non saremo in grado di competere”, ha dichiarato a Reuters il proprietario di una fabbrica che produce capispalla per Zara. “Saremo a un punto morto”, ha aggiunto l’imprenditore, che per sostenere l’aumento dei costi ha dovuto tagliare di un terzo il suo personale.
L’ultimo aumento del salario minimo in Turchia è stato di 17 mila lire turche (453 euro al cambio corrente) lo scorso gennaio, con un incremento del 100% anno su anno e del 500% sul 2021, quando il crollo storico della lira ha scosso il Paese. Allo stato dell’arte, i costi di produzione complessivi della Turchia sono quasi il 40% più alti rispetto ai Paesi asiatici concorrenti in termini di dollari, secondo quanto riporta Reuters.
In questo contesto, numerose aziende del settore si sono rivolte agli organi giudiziari per sospendere i pagamenti dei debiti con le banche e i fornitori e poter così continuare l’attività, nonché, dall’altra parte dello spettro, per avviare una procedura fallimentare. Secondo il sito di monitoraggio konkordatotakip.com, ad agosto erano state concesse le prime protezioni giudiziarie dai debiti già a 982 aziende, quasi il doppio del 2023.
Il quadro, secondo gli esperti sentiti dall’agenzia di stampa, potrebbe peggiorare. Infatti, dati gli strumenti aggressivi utilizzati per abbattere l’inflazione, l’aumento della disoccupazione e degli episodi di bancarotta sul suolo turco è dato per molto probabile. “Potrebbero esserci costi pesanti”, ha affermato Erdal Bahcivan, presidente della Camera dell’Industria di Istanbul. “Mentre si cerca di salvare un’azienda, decine di fornitori potrebbero finire in gravi difficoltà”.