Un tempo opzione imprescindibile per fidelizzare i clienti, ora la gestione dei resi gratuiti e della logistica ad essi connessa incarna una delle sfide maggiori per l’e-commerce. Tanto da spingere brand ed e-tailer di moda a porre fine ai free online returns. In discussione non c’è solo la sostenibilità economica del modello di business, ma soprattutto la sostenibilità ambientale, con l’enorme impatto delle consegne last-mile. A registrare le inversioni di rotta più significative è il fast fashion: ultima in ordine di tempo H&M che ha deciso di addebitare delle commissioni sui resi del suo e-shop, riflesso dei maggiori costi da sostenere in fase di approvvigionamento, produzione e spedizione delle collezioni. La notizia ha fatto il giro della stampa specializzata, secondo la quale, negli ultimi mesi il colosso svedese avrebbe visto crescere la quota di resi al 30 per cento. Helena Helmersson, CEO di H&M, ha spiegato che il brand applicherà una commissione sui resi “in alcuni dei suoi mercati”, precisando però che questo accadrà solo per le restituzioni da shopping online. Non ci saranno fees, invece, per i clienti che restituiranno prodotti comprati in negozio. L’attuale politica sui resi online dell’insegna – si legge sul sito di H&M – prevede che H&M rimborsi “la maggior parte degli articoli, a condizione che non siano stati danneggiati, sporcati, lavati, alterati o indossati e che tutte le etichette siano attaccate”. A precedere il gruppo di Stoccolma è stato, lo scorso maggio, il competitor Inditex, numero uno del settore. Partendo dal mercato inglese, Zara ha infatti deciso di addebitare una commissione di 1,95 sterline (poco più di due euro) ai consumatori del Regno Unito che vogliano rendere un prodotto acquistato online attraverso i punti di consegna che non appartengono al marchio, ma che sono gestiti da terze parti, come, ad esempio, gli uffici postali. In Italia, riporta il sito Zara.com, le restituzioni dal domicilio “hanno un costo di 4,95 euro che verrà detratto dall’importo del rimborso”.
Dal canto loro, Uniqlo, Next e Boohoo non prevedono resi gratis nel proprio e-commerce, mentre Asos e Zalando avevano stabilito, già diversi anni fa, un ordine minimo per poter beneficiare di opzioni free. “I brand che supportiamo nel loro e-business hanno tassi di reso che variano a seconda del tipo di prodotto e dei Paesi in cui si concentrano le vendite – ha spiegato a Pambianconews Paolo Porfiri, CDO di Drop, advisor e system integrator attivo da vent’anni sul fronte e-commerce -. Solitamente l’average return rate è più elevato per i marchi di fascia alta. Ad esempio nel mercato tedesco e statunitense, è particolarmente diffusa la pratica di acquistare lo stesso capo in taglie e/o colori diversi per poi tenere ciò che piace e restituire il resto. Se guardiamo un brand luxury può avere ad esempio 30% di return rate medio globale, per la Germania si può arrivare fino al 50 per cento”. In termini di macrotrend non esiste un tendenziale chiaro supportato da dati inconfutabili. “Possiamo però dire – ha aggiunto Porfiri – che l’abitudine di utilizzare la possibilità di restituire un prodotto che non ci convince è definitivamente entrata nel comportamento. In generale se qualche anno fa i KPI (Key Performance Indicators) andavano tra il 10% e il 20%, oggi li troviamo a livelli medi decisamente più alti, difficilmente sotto il 20 per cento”.
Non è un caso che la revisione di questo modello di business sia scattata a margine della pandemia: negli scorsi anni gli acquisti online sono aumentati esponenzialmente e con essi anche il ricorso ai resi, onerosi non solo per le tasche dei player e-commerce, ma anche per il sistema logistico, a fronte di una supply chain globale inceppata e in difficoltà. Stando a quanto riporta la Cnbc, nei soli Stati Uniti (dati Nrf-National Retail Federation e Appriss Retail), nel 2021 il retail ha visto balzare la percentuale media di restituzioni al 16,6%, contro il 10,6% medio del 2020. “I resi – riflette la testata Usa – tendono ad essere più elevati quando i consumatori acquistano online, una modalità di shopping che rende facile gettare gli articoli nel carrello virtuale, ma difficile visualizzare realmente come appariranno o come si adatteranno. Le transazioni online hanno rappresentato circa il 23% delle vendite al dettaglio totali negli Stati Uniti nel 2021, secondo la Nrf. Gli acquisti indesiderati tornano nei negozi e nei magazzini dei rivenditori e diventano un grattacapo per le aziende che devono decidere se possono rivendere quegli articoli o perdere l’incasso”.
Anche prima del Covid-19 a far riflettere erano fenomeni come il wardrobing, con i consumatori che comprano abiti, scarpe e altri articoli con l’intenzione di usarli per un tempo limitato e poi di restituirli. Spesso, incentivati dal reso gratuito, i clienti acquistano più colori e taglie rispetto a quelli che poi hanno intenzione di tenere. Applicare una commissione può dunque fare la differenza sul comportamento dei clienti, con notevoli risvolti green. La non-sostenibilità ambientale dei resti gratuiti è un concetto su cui analisti e ricercatori mettono in guardia da tempo: già nel 2019, negli Usa, il trasporto aveva superato le centrali di energia nell’emissione di gas serra, la maggior parte dei quali imputabile ai furgoni che portano la merce nelle case. Non va inoltre dimenticato il packaging, con l’enorme quantità di scatole di cartone e involucri di plastica che vengono generati nel processo di restituzione. “Per tornare all’impatto dei resi sui conti del business – ha concluso Porfiri -, tutti gli operatori si mostrano giustamente sensibili. Per ora la preferenza è per mantenere, ove possibile, la gratuità del processo. È molto probabile però che la sensibilizzazione a consumi sempre più responsabili possa passare a breve anche a maniere più decise, andando a prevedere un costo per i resi, quantomeno per una copertura parziale dei costi vivi della reverse logistic”.