Come cambierà il lavoro dopo la pandemia? È una delle domande che l’ultimo anno e mezzo ha lasciato aperte, dando spazio a nuove soluzioni e strade alternative. Anche la fashion industry si interroga sul futuro del lavoro, tra l’esigenza di tornare in ufficio e lo smart working, i cui benefici sembrano allineare aziende e lavoratori. La risposta più audace e fuori dal coro arriva da Desigual, che ha appena inaugurato presso il suo headquarter di Barcellona la 4 day week.
Ad approvarla con una larghissima maggioranza sono stati gli stessi dipendenti che hanno detto sì con una percentuale dell’86%, nonostante la, seppur contenuta, riduzione di salario conseguente al taglio delle ore lavorative, passate dalle consuete 39,5 ore a 34,5 ore settimanali. Tra le condizioni della proposta, anche la possibilità di lavorare da remoto un giorno la settimana. Dietro questa scelta, ha raccontato a Pambianconews il CEO della maison iberica Alberto Ojinaga, c’è la consapevolezza di un momento storico che sta imponendo ritmi di lavoro e vita diversi e l’intenzione di intercettare un cambiamento che era nell’aria già da tempo: passare da un sistema lavoro-centrico a un modello che sappia conciliare e insieme valorizzare la sfera professionale e quella privata con flessibilità ed equilibrio. E senza compromessi in termini di produttività.
La scommessa della ‘short week’ è iniziata per Desigual. Da dove arriva questo progetto?
L’idea nasce dall’origine stessa di Desigual, la cui vocazione è sempre stata quella di porsi come un luogo in cui sia bello e piacevole lavorare. Non a caso un nostro claim, a lungo ripetuto in azienda e noto in Spagna, recitava proprio “try to be the best place to work”. Con l’avvento del Covid io e Thomas (Meyer, fondatore dell’azienda, ndr) ci siamo trovati a riflettere su come ritornare a questo concetto, elaborando una strategia che tra le proprie linee includesse inclusività, divertimento, sostenibilità e naturalmente ‘work life balance’. E da qui è iniziato il nostro progetto.
Vi aspettavate un consenso così ampio?
A essere onesti, no. Neanche nei migliori scenari avremmo previsto una maggioranza dell’86 per cento. Naturalmente eravamo convinti che si trattasse di una proposta allettante e che i vantaggi fossero evidenti sia per i lavoratori sia per noi, ma non pensavamo di convincere a questo livello i dipendenti. Ci ha davvero colpito l’atmosfera di entusiasmo che ha accolto l’esito della votazione.
La proposta è stata approvata nonostante la riduzione del salario. Dal vostro punto di vista, invece, vi spaventa il rischio di un’eventuale perdita in termini di produttività?
No, sapevamo che una scelta del genere avrebbe comportato uno sforzo da parte dell’azienda per sopperire a questa riduzione delle ore lavorative, ma sostanzialmente abbiamo ritenuto che ci saranno delle cose che dovremo smettere di fare, altre che dovremo cercare di fare in modo più efficiente, e altre ancora in cui avremo bisogno di un potenziamento e quindi assumere nuove persone. Quindi no, l’idea non ci spaventa: questo non è un progetto pilota, è una decisione definitiva in cui ci siamo voluti impegnare.
Come questo nuovo approccio sarebbe applicabile a lavori più legati a orari e tempistiche stabilite, come quello del personale in store?
In questi casi la settimana di quattro giorni non sarebbe applicabile perché i costi della riduzione delle ore lavorative non potrebbero essere compensata con maggiore efficienza e organizzazione. Ci impegneremo comunque, anche se in altre modalità, per improntare i ritmi lavorativi anche di chi opera al di fuori dell’headquarter, nella supply chain o negli store, a un maggiore work life balance. In Italia, per esempio, in cui la maggior parte dei negozi sono aperti anche la domenica, è difficile trovare una soluzione che permetta di conciliare i ritmi lavorativi con gli impegni della vita privata, per questo stiamo studiando una proposta molto articolata, che comunicheremo a breve, in cui è previsto un sistema di turnazione efficiente per i weekend e altri benefit. Certo, non è invitante come la prospettiva della settimana corta, ma è un tema su cui stiamo riflettendo.
In che misura il Covid ha contribuito ad accendere il dibattito su questo tema? Pensa che il vostro approccio possa diventare un modello d’ispirazione anche per altre realtà da ora in poi?
Sì, la pandemia ci ha certamente imposto e poi insegnato a pensare nuovi modi di organizzare e svolgere il nostro lavoro. Noi stessi, nel mettere a punto la nostra proposta, ne siamo stati influenzati. Per estendere il cambiamento a livello universale ci sarà naturalmente bisogno del sostegno dei governi, in modo che i costi che ne derivano non gravino sulle aziende. Altrimenti, ci vuole un concorso di condizioni necessarie ad attuarlo, come nel caso del nostro headquarter. Penso fermamente che questo però ci renda davvero competitivi nell’attrarre nuovi talenti, è una scelta strategica in questo senso. Spero comunque che il nostro esempio possa ispirare altre realtà ad agire in modo altrettanto coraggioso e a ideare un nuovo modo di fare le cose. Molte aziende si sono mostrate interessate e ci hanno già contattato per sentire la nostra esperienza.
Si tratta di una scommessa, emerge dalle parole di Ojinaga, che comporta dei rischi calcolati e delle opportunità di crescita soprattutto in termini qualitativi. La sfida consiste proprio nel ripensare i ritmi, la struttura e il senso stesso del lavoro, tagliando il superfluo e ottimizzando l’indispensabile. La tesi che ha spinto Desigual a fare il salto sembra essere una: quello della produttività è un falso problema, perché la priorità dovrebbe diventare il procedere per obiettivi anziché per tempi prestabiliti. Less is more, ancora una volta.