Il mondo della moda affronta una nuova frontiera della tecnologia. In passato, unire manualità ed esperienza manifatturiera con le novità dell’hi-tech ha consentito al made in Italy di mantenere la sua leadership nel campo della produzione. Oggi, prende consistenza un fattore per cui la tecnologia avrà un ruolo decisivo: la tracciabilità, e con essa la mappatura di tutte le produzioni del tessile-moda, partendo dal filato per arrivare al prodotto finale. In questo caso la tecnologia in questione è quella della blockchain, il registro digitale le cui voci sono raggruppate in blocchi, concatenati in ordine cronologico, e la cui integrità è garantita dall’uso della crittografia. Questa struttura di dati è alla base di un progetto lanciato lo scorso inverno dal ministero per lo Sviluppo economico (Mise) al quale sta collaborando anche Smi-Sistema moda Italia assieme a Ibm, scelto come partner tecnologico, per esplorare come questo genere di tecnologia possa coadiuvare il made in Italy e garantire al consumatore, innanzi tutto, trasparenza sui processi produttivi. Il tessile-moda, nelle intenzioni dell’esecutivo Lega-M5s, avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza di un progetto più ampio, estendibile poi a tutti i settori della manifattura italiana. Il condizionale è d’obbligo perché, anche in seguito alla bollente estate che ha portato alla crisi di governo, non si sa ancora quale sarà il futuro di questo progetto che, per il momento, è fermo alla presentazione dello studio di fattibilità. Tra gli industriali, come tra le associazioni confindustriali, la sensazione che serpeggia è che si stia andando nella giusta direzione, ma con tempi troppo dilatati. Entrando nel merito del progetto ministeriale sulla blockchain tessile, a metà aprile è partito l’iter per uno studio di fattibilità, focalizzato su tutta la filiera, che ha coinvolto, in una prima fase, una trentina di realtà manifatturiere italiane. Alle aziende è stato chiesto di condividere le informazioni sulla provenienza delle diverse fasi produttive (filatura, tessitura, nobilitazione e confezione) e di criptarle attraverso il sistema informatico blockchain. Il tutto, nei piani del progetto tracciabilità, dovrebbe essere fruibile al consumatore finale attraverso una semplice etichetta applicata al prodotto finito che utilizza la tecnologia Qr code. Sebbene il progetto resti di natura volontaria, sarebbe un passo in avanti di grande importanza perché consentirebbe al consumatore di avere un carta d’identità completa di ogni capo. E la certezza che alcune produzioni, essendo realizzate in Italia o in Europa, siano più trasparenti e rientrino nei parametri di sicurezza imposti dall’Ue (si pensi, per esempio, al Reach, il regolamento comunitario sull’uso delle sostanze chimiche). “È uno strumento chiave perché consente al consumatore di fare acquisti più responsabili – conferma Andrea Taborelli, Vice Presidente Smi con delega alla Tracciabilità che ha seguito in prima persona il progetto – perché la blockchain fornisce informazioni incontrovertibili e non cancellabili”.
Il problema, a questo punto, sono però le tempistiche. Lo studio di fattibilità si è concluso prima della fine di luglio, quando era prevista anche una conferenza stampa di presentazione dei risultati, poi cancellata per motivi di forza maggiore. “Ora – continua Taborelli – quel che manca è una fase sperimentale che ci faccia toccare con mano le difficoltà concrete che possono riscontrare le aziende”. Non è un problema da poco. “Per esempio – aggiunge -, pensiamo al fatto che le aziende in genere usano sistemi tecnologici e informatici diversi. Nello studio di fattibilità non abbiamo analizzato, perché non era previsto, questa criticità, ma nella realtà di tutti i giorni esiste. Sempre da questo punto di vista, potrebbe nascere anche una difficoltà di applicabilità del registro. Un limite da superare soprattutto per le piccole aziende, magari meno avvezze a questo tipo di tecnologia. Servirebbe un aiuto istituzionale in questo senso, per avere consulenze da parte di esperti in blockchain”. E poi c’è il discorso della produzione extra europea. “Nel caso in cui una azienda indichi che una determinata fase del prodotto è stata portata a termine in Paesi poco controllabili, pensiamo al Pakistan o al Bangladesh, non possiamo ottenere informazioni complete”. Le basi, quindi, ci sono ma c’è ancora molto da lavorare. E, soprattutto, occorre farlo alla svelta. “Il progetto è molto interessante”, commenta Stefano Albini, presidente Albini Group, una delle aziende che hanno partecipato allo studio di fattibilità. “E abbiamo lavorato con Ibm alla progettazione – prosegue – e, successivamente, alla costruzione della piattaforma software. Siamo arrivati ai test finali dove ogni partecipante ha inserito manualmente tutti i dati. È stato un esperimento positivo, ma ci sono dei degli scogli da superare. Occorre che tutti gli attori della catena produttiva siano motivati dalla stessa volontà. Basta che una azienda non sia interessata a diffondere le informazioni sulla sua produzione e il ciclo si interrompe, la blockchain non è completa. Ecco perché i grandi gruppi del lusso stanno lavorando su piattaforme analoghe”. È il caso di Lvmh con il progetto Aura, o di alcuni brand hard luxury del gruppo Richemont. “Il problema – conclude – è che quando questi gruppi avranno le loro piattaforme, strutturate ‘privatamente’, nel caso in cui non ci sia uno strumento analogo e istituzionale a livello europeo, saremo noi singoli, magari, a doverci adeguare ai loro parametri”. Ecco perché il fattore tempo è fondamentale per il made in Italy.