Aumentare le dimensioni a “un livello che consenta di competere a livello globale”. Occupare un posizionamento premium dove “il made in Italy ha oggi le migliori carte da giocare”. Prepararsi ad accelerare i tempi di cambiamento e adeguamento al mercato, specie quello elettronico. Sono le tre linee guida oggi sul tavolo di Marco Marchi, fondatore e amministratore delegato di Liu Jo, che, a Pambianco Magazine, spiega prima di tutto come “l’imprenditore abbia oggi una responsabilità morale ed etica”, nel condurre l’azienda in una direzione più sostenibile. Per la P/E 2020, Liu Jo ha moltiplicato le proposte a marchio ‘Better’, l’identificativo dato ai prodotti eco, partito lo scorso A/I 2019 con il lancio di Liu Jo Better Denim in partnership con Candiani. “Un trend – precisa – da cui la moda non tornerà più indietro”.
Partiamo da questo. Perché lanciare oggi il progetto Better Denim? In realtà, il percorso di Liu Jo è partito quasi 2 anni fa. Si tratta di un progetto consapevole, avviato in uno dei segmenti più inquinanti: il denim. Abbiamo posto le basi per limitare l’impatto ambientale, assieme a Candiani e altri partner dei tessuti. Un processo che abbiamo gestito in modo oculato e attento.
È una scelta dettata dal mercato? Una scelta del genere richiede una sensibilità dell’imprenditore. Il tessile è la seconda industria più inquinante al mondo, perciò pone una responsabilità morale ed etica su chi guida un’azienda. Una piccola goccia, portata da ogni singola azienda, può consentire di fare un mare. Detto ciò, è chiaro che, oggi, un messaggio del genere è coerente con la richiesta generale di sostenibilità. E non è una richiesta passeggera.
Ritiene che la sostenibilità non sia un fenomeno temporaneo? Il fatto di trovarci in un mondo che parla in modo comune di questa tendenza, significa che il timore di un disastro ecologico è un elemento che si è radicato nella coscienza generale. Le generazioni più giovani iniziano a dichiararlo in modo evidente: sono disposte a pagare di più per prodotti con valori sostenibili. Inoltre, la cosa che colpisce è che anche il mass market guarda a questo processo con grande attenzione. Credo che la sostenibilità sia un trend cui non si può rinunciare. E dal quale non si tornerà più indietro.
Parliamo di numeri. Com’è andato il 2018 di Liu Jo? Abbiamo chiuso a 377,5 milioni, con un incremento double digit rispetto ai precedenti 338 milioni. È una crescita significativa, raggiunta in un anno complesso, e mantenendo inalterato il valore della redditività.
E come va il 2019? Di solito, preferiamo non esprimerci sulle prospettive, ma concentrarci sui risultati effettivamente raggiunti. In ogni caso, i dati su quest’anno sono ancora interessanti, e prevediamo una crescita. Certo, il 2019 è un anno complicato, per motivi climatici e tensioni di mercato, con un’Italia (dove facciamo il 45% del nostro business) che non cresce. Il nostro sviluppo, perciò, si lega più al mercato internazionale che domestico. In ogni caso, sarà un anno in cui crescere sarà un segno distintivo.
Nei vostri ricavi non è compreso il turnover dell’uomo, giusto? È corretto. Questi valori escludono l’uomo che è in licenza alla Cocama di Giuseppe Nardelli, e che si aggira sui 60 milioni di fatturato. Si tratta di un asset su cui c’erano importanti piani di sviluppo.
Che tipo di piani? C’erano valutazioni tra i due imprenditori sull’acquisizione del business, ma il progetto era legato all’Ipo di Liu Jo. Oggi, l’Ipo è in stand by. Perciò dobbiamo vedere cosa fare.
L’ipotesi di crescita per linee esterne resta valida? Confermo che siamo interessati ad acquisizioni. E con le nostre forze, senza investitori esterni, ma al limite col supporto bancario. Abbiamo sul tavolo una serie di dossier aperti. La volontà è portare Liu Jo a una dimensione tale da poter competere nel mondo.
Un mondo a complessità crescente. Quali strade sono aperte per il made in Italy? Siamo convinti che il segmento premium sia quello dove le aziende italiane possono giocare la loro partita. Il segmento lusso, infatti, è in mano ai francesi che sono riusciti a occupare una parte dominante del mercato, anche attraverso una logica di sinergia. All’altro estremo, il mass market è in mano a gruppi che hanno raggiunto grandissimi livelli di efficienza, come Inditex, H&M o Primark.
Resta più scoperto, appunto, il segmento premium Esatto. Il premium è quello che dà chiari segnali di dinamismo: è il mercato che raccoglie gli ‘orfani del lusso’, quella fascia di consumatori rimasta spiazzata dall’accelerazione dei prezzi delle griffe, cresciuti del 70% in 10 anni. Per contro, il premium rappresenta il segmento di upgrade per coloro che salgono dal mass market.
L’effetto e-commerce quanto sta trasformando la vostra distribuzione? L’e-commerce si aggira oggi attorno al 3% del fattorato. E il tasso di crescita esponenziale ci fa presupporre che potremmo arrivare al 5% entro un anno 1 anno. Questo ha effetti sul negozio fisico. Dove il traffico diminuisce, ma aumenta la qualità. L’ecommerce, infatti, ha bisogno del negozio: il punto fisico non è anacronistico per un brand premium. Anzi, è la sua casa, dove il consumatore acquisisce percezioni e codici che diventano parte integrante della percezione del marchio. Perciò il Crm è un elemento irrinunciabile.
E i multimarca? Credo che sia un elemento importante del percorso. Sono un fan dei multimarca gestiti con professionalità, con il gestore che conosce personalmente i clienti. I risultati di alcuni multibrand di provincia confermano come la capacità di leggere e dettare un acquisto al cliente sia un aspetto non sempre replicabile in un negozio di proprietà.
Come vi ponete nei confronti di social e influencer. Si tratta di un fenomeno complesso che ha messo a dura prova il mercato, e cui occorre ormai fare costante riferimento. Monitoriamo esempi e casi di mercato, testimonial e follower. in un processo praticamente continuo. Aggiorniamo la strategia settimana dopo settimana. Ormai, non si possono dichiarare strategie a medio-lungo termine.