Il rallentamento economico è chiaro. Ma si tratta di un riposizionamento, anche culturale, che offre importanti opportunità. E il tessile made in Italy già festeggia.
Il Dragone cambia pelle, forse rallenta, ma svela nuove opportunità per il made in Italy. I grandi marchi del lusso si chiedono come rispondere all’evoluzione del mercato cinese, cinque anni fa El Dorado della moda, oggi nel vivo di un’indicativa fase di chiusura di negozi. Per contro, l’innalzamento delle capacità e degli obiettivi produttivi apre nuovi spazi alla filiera tessile italiana, che rendono l’Ex Celeste Impero un impensato alleato per il futuro.
IL PIL FRENA, MA I FILATI …
I dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica della Repubblica Popolare Cinese confermano la fase di rallentamento, e inquadrano un 2015 chiuso con una crescita del Pil del 6,9% (il progresso più basso dal 1990, e lontano dal +10,3% messo a segno nel 2010) e un primo trimestre 2016 a +6,7 per cento. Ma c’è un interessante dato in controtendenza che arriva dall’export italiano: le esportazioni italiane di prodotti tessili nel Gigante Asiatico sono cresciute del 15,4% da gennaio a marzo 2016. Una sorpresa che sembra evidenziare come, nello stesso mercato che ha registrato una vistosa frenata dei consumi di lusso, ci siano nuovi sbocchi per le produzioni italiane. “La Cina – ha raccontato a Pambianco Magazine Amedeo Scarpa, direttore dell’agenzia Ice di Pechino e coordinatore della rete di uffici Ice in Cina e Mongolia – è un Paese che vive un grande cambiamento. è un Paese che rallenta o che, come dice il governo di Xi Jinping, cerca un new normal. La crescita non è più a due cifre. Il Paese non può più contare sui costi di produzione più bassi al mondo, e per questo deve puntare su una maggiore qualità dei servizi manifatturieri e su più oculati investimenti all’estero. Il nuovo piano quinquennale al 2020, quello che vuole una Cina più attenta all’andamento dei consumi interni, ai diritti di proprietà intellettuale e alle importazioni di prodotti di qualità, può presentare nuove opportunità per il made in Italy”.
LOCOMOTIVA DELL’ASIA
Secondo i dati forniti dall’istituto per il commercio estero, nel 2015, in Asia, le esportazioni italiane di prodotti tessili hanno messo a segno un aumento del 6,9%, mentre l’abbigliamento e gli articoli in pelle hanno registrato, rispettivamente, un +7,9% e un +6,7 per cento. Sostanzialmente stabile l’export del primo trimestre 2016, con i prodotti tessili che guadagnano un punto percentuale, mentre abbigliamento e leather goods perdono lo 0,6% e l’1 per cento. Trainante rispetto ai dati dell’intero continente, la performance cinese, con esportazioni dal Bel Paese che nei dodici mesi aumentano, per i tre settori sopracitati, rispettivamente dell’11,9%, dell’8,8% e del 10%, mentre da gennaio a marzo dell’anno in corso a crescere sono stati soltanto gli scambi di prodotti tessili (+15,4% appunto), contro il -6,4% e il -8,7% di apparel e articoli in pelle. In direzione dell’Ex Celeste Impero, la tessitura italiana può dunque dare nuovo impulso alla sua vocazione internazionale, pronta a fare meglio del +2,1% medio annuo di vendite estere registrate nel 2015 per oltre 29 miliardi di euro (dati Smi-Sistema Moda Italia).
IL VANTAGGIO DELL’INDOCINA
L’Italia non è però il solo soggetto a poter beneficiare del riposizionamento cinese: “Anche alcuni Paesi del Sud-est asiatico – ha continuato Scarpa – stanno implementando la produzione di filati di qualità e quindi possono diventare competitor dell’Italia, complice anche la maggiore vicinanza geografica alla Cina. L’Indocina ha inoltre il vantaggio competitivo di potersi ancora permettere la produzione a basso costo. In quanto subcontinente, anche l’India potrebbe insidiare la Cina, ma per ora il livello delle infrastrutture nell’area resta arretrato”.
La normalizzazione del Gigante Asiatico traduce il passaggio da economia emergente a economia matura, da corsa alla quantità a ricerca della qualità, con una crescita più sostenibile, con minori investimenti pubblici e maggiore attenzione ai servizi. Tra le decisioni del governo cinese anche la svalutazione della moneta, lo yuan, con cui tenta di fronteggiare il calo delle esportazioni e di stimolare la domanda interna. A risentire di questo scenario sono per lo più le aziende del lusso che vendono nell’Ex Celeste Impero, costrette a fare i conti con un mercato già ampiamente presidiato e sempre più selettivo.
UN LUSSO CHE DIVENTA LIGHT
Con una popolazione che sfiora gli 1,4 miliardi di individui, di cui quasi 700 milioni accedono regolarmente a internet, con un tasso di diffusione della rete pari al 50,3% (dati del 37° Rapporto statistico sullo sviluppo del Web in Cina, pubblicato dal Centro di Informazioni cinese su Internet) la Cina, del resto, è il Paese con più alto numero di utenti web al mondo. “A diventare sempre più popolare – si legge nel 2016-2020 Analysis report on market research and development trend of Chinese apparel luxury goods del China industry research web – è il concetto di light luxury, che rappresenta un vero e proprio stile di vita, soprattutto per le nuove generazioni”.
LA PARTITA DEL RETAIL
Man mano che il comportamento d’acquisto dei consumatori asiatici matura, le loro scelte nel mercato del lusso diventano più diversificate. “Le aziende che operano o che approdano in Cina – ha sottolineato Scarpa – devono sapere che gli interlocutori sono sempre più informati e consapevoli nelle scelte d’acquisto. A condizionare consumi del lusso, oltre al rallentamento del Pil, è oggi anche la spinta moralizzatrice del governo cinese, che chiede ai propri cittadini di non ostentare. Per le aziende permangono tuttavia notevoli opportunità, anche nel settore retail, a patto però di strategie che, se da una parte valorizzano le performance di store esistenti in città come Pechino e Shanghai, dall’altra si orientino sulle città di seconda e terza fascia, quali Quingdao, Dalian, Chengdu e Taiyuan come nuove mete dell’espansione”.
Insomma, la partita dei negozi è appena cominciata. Ci si attendono spostamenti e riequilibri consistenti. E variabili a seconda dei brand. In base al report The Luxury retail network opportunity in China di Exane Bnp Paribas, realizzato prendendo in considerazione 5.191 monomarca dei principali brand del lusso, retailer ed insegne cinesi di gioielleria su un totale di 176 città cinesi, tra le grandi griffe che presentano i maggiori margini di crescita retail nel Gigante Asiatico ci sono Michael Kors, Hermès e Tiffany, mentre le italiane Versace, Ermenegildo Zegna, Moncler e Dolce & Gabbana figurano, insieme a Givenchy, tra le aziende sovraesposte. In un confronto tra i due gruppi francesi del lusso, Lvmh e Kering, sarebbe quest’ultimo a presentare il miglior compromesso tra opportunità e profittabilità dello sviluppo retail in Cina, grazie al potenziale di crescita di Yves Saint Laurent. Sempre secondo gli analisti dell’investment company, tuttavia, se negli ultimi cinque anni il 40% della crescita del fatturato del settore lusso è stata determinata proprio da un aumento degli spazi commerciali, la maggior parte dei grandi marchi del lusso sarebbe oggi già oltre le proprie “opportunità” di espansione, destinata a proseguire in modo più misurato.
LA CRISI DI HONG KONG
Nella localizzazione degli investimenti, ad oggi le aree interne sembrano offrire più opportunità in divenire. A perdere terreno, in ogni caso, sono Macao e Hong Kong, le due regioni amministrative speciali della Repubblica Popolare cinese, che accusano soprattutto il calo dei flussi turistici. Nello specifico, secondo i dati riportati da Il Sole 24 Ore, nel 2015, Hong Kong avrebbe registrato una diminuzione dell’8% dei consumi al dettaglio dei viaggiatori cinesi, spinti verso altre mete di viaggio e di shopping come Europa, Giappone, Corea del Sud e Singapore, dall’allentamento dei requisiti per i visti, da tassi di cambio favorevoli e da un’offerta più ampia.
di Giulia Sciola