Dal cotone grezzo alla tela jeans, Candiani ha creato un’oasi, fondata su innovazione e sostenibilità, che sfiora i 120 milioni. Ed è leader in Europa.
Forse non tutti sanno che l’azienda produttrice di denim più grande d’Europa, e anche tra le più sostenibili al mondo, è italiana. Con una superficie produttiva di 85mila mq (divisa in due stabilimenti), 650 operai (che lavorano 24 ore su 24, 6 giorni su 7) e una produzione annuale di 25 milioni di metri di tessuto (e 70mila kg di filati al giorno), Candiani Denim è un punto di riferimento per tutti i top denim brand del mondo, da J Brand ad Hudson, fino a 7 For All Mankind, incluse griffe come Armani e Gucci, e marchi fashion che inseriscono capi in jeans nelle loro collezioni. Una realtà tessile glocal, sotto alcuni punti di vista ancora artigianale, ma di proporzioni industriali, che oggi fattura intorno ai 115 milioni di fatturato. Tutto iniziò quando nel 1938 Luigi Candiani fondò una piccola azienda di tessuti destinati alla produzione di abiti da lavoro a pochi chilometri da Milano, a Robecchetto con Induno, immersa nel verde e nella tranquillità del Parco del Ticino. Con il passare del tempo, negli anni 70, l’azienda iniziò a concentrarsi esclusivamente sulla produzione del tessuto denim. E a scommetterci in modo convinto, mettendo in atto una serie continua di investimenti per innovare la qualità della produzione: ogni singolo reparto, infatti, è stato ampliato e migliorato attraverso l’acquisto dei macchinari tecnologicamente più avanzati. Ma la svolta, come ricordano con orgoglio in azienda, è arrivata nel 2004 con l’inaugurazione del Malvaglio Plant, un nuovo impianto industriale realizzato a pochi chilometri di distanza dalla sede storica. Un altro momento cruciale c’è stato due anni fa quando è stata cambiata la ragione sociale dell’azienda, da Tessitura di Robecchetto Candiani al più incisivo Candiani Denim, quasi a non voler lasciare alcun dubbio sul fatto che l’eccellenza del jeans nasca tra le mura di questa piccola grande industria che trasforma quotidianamente cotone grezzo in denim.
“Negli stabilimenti di Candiani – ha spiegato a Pambianco Magazine il direttore marketing Simon Giuliani – avvengono consegne di cotone ogni giorno principalmente da Africa, Turchia, Brasile, Grecia, Spagna, Usa ed Egitto. Ogni settimana si mischiano le provenienze, e si fanno dei test, per ottenere il mix giusto che rappresenta il nostro filato standard. Dal magazzino, il cotone passa poi alla filatura e successivamente alla fase di tintura”. Ed è qui che Candiani gioca le sue carte in termini di sostenibilità. La tintura indaco, dicono dall’azienda, può seguire il metodo tradizionale delle 7 vasche oppure i procedimenti più innovativi ‘N-Denim’ e ‘Indigo Juice’. Con la prima metodologia si tinge sotto azoto e ciò significa un risparmio dei consumi d’acqua del 33% e di agenti chimici del 50%, mentre la seconda, grazie a una tintura superficiale del filo, permette di ridurre l’impatto dei lavaggi successivi, perfetto per lavorazioni delle tele con laser, ozono e ghiaccio. Alla fase successiva, quella della tessitura, che ha come protagonisti 36 telai ‘vecchia maniera’ cui si aggiungono 232 telai di ultima generazione, segue l’ultimo step, il finissaggio che comprende tutti i trattamenti per migliorare le caratteristiche del prodotto il cui 85% è rappresentato da tessuto elasticizzato. Oggi Candiani Denim, la cui guida è affidata alla quarta generazione della famiglia Candiani nelle figure di Gianluigi (Presidente) e Alberto (figlio di Gianluigi, e global manager), esporta il 90% dei suoi prodotti, in particolare verso Usa (40%) ed Europa (50%), e per il 2015 prevede una crescita del fatturato intorno al 10-15 per cento. I prossimi sforzi dell’azienda sono concentrati principalmente sul mercato statunitense. Entro la fine del 2015, infatti, è prevista l’apertura di un Development Center presso gli uffici di Los Angeles. L’obiettivo è trasferire in California parte della tradizione e della cultura Candiani. Il Center di Los Angeles sarà simile a quello della sede di Robecchetto con Induno, gestito dall’esperto tecnico di lavanderia 23, dove si testano gli sviluppi, si sperimentano i lavaggi e soprattutto si organizzano workshop per clienti, marchi e stilisti. “Questo servizio – ha concluso Giuliani – vuole essere un aiuto pratico per i nostri clienti che, attraverso informazioni, consigli e test, possono toccare con mano gli infiniti effetti finali che si possono avere con i nostri tessuti”.
di Rossana Cuoccio