Per la sua prima sfilata newyorchese dal 1998, Giorgio Armani non ha voluto circondarsi solo dalle solite star hollywoodiane. Seduti in prima fila, attorno alla passerella allestita al Pier 94, c'erano migliaia di comuni mortali, che avevano risposto all'invito lanciato dallo stilista milanese con un'inserzione sul mensile giovanile «Paper». «L'idea è nata quando il Fashion Group International mi ha comunicato di volermi accordare il “superstar award”, il premio alla carriera, che mi verrà consegnato stasera a Manhattan. “Grazie del pensiero”, ho risposto, “ma toglietevi dalla testa che sparisca e vi liberiate di me”. Prendo il premio ma continuo a proporre. Cominciando col lanciare un forte segnale alla New York verso cui sento un grande debito di gratitudine per avermi aiutato a diventare ciò che sono».
Ora lei sta facendo abiti su ordinazione, sempre più d'elite. Non è una contraddizione?
«E' un esperimento senza precedenti: si tratta di vestiti unici, fatti a mano e ricamati, destinati ad un tipo di donna che cerca l'unicità e l'esclusiva. Abiti di cui possono esistere cinque esemplari al mondo: uno per città. A New York o Londra lo stesso vestito non può essere venduto a due persone».
Cosa ha dettato questa svolta di filosofia commerciale?
«Permette a noi e al negozio di fare un vestito che ha già un'acquirente, mentre la stampa, sempre a caccia di eccentricità, è accontentata». Non si rischia di arrivare all'abito-scultura da museo? «Non succederà mai: io amo il vestito sul corpo, meglio se imperfetto. Io vedo, tocco e vivo le persone, quando lavoro».
Si sente realizzato in questo periodo?
«A 70 anni posso permetterti qualche cosa in più. Il mio lusso oggi non è avere un Picasso alla parete ma fare ciò che amo. Non voglio deludere la cliente che mi segue da 30 anni ma ora voglio sua figlia e perciò sono costretto a rinnovarmi».
Estratto da Corriere della Sera del 28/10/04 a cura di Pambianconews