«La vera competitività si misura con gli Stati Uniti e l'Europa». «La Cina non è un mostro, ma una sfida da vincere, come l'Italia ha già fatto in altre occasioni». «Basta con la retorica del piccolo è bello: un Paese che è la sesta potenza industriale deve contare su grandi imprese, e se ne ha poche deve aiutare le medie a crescere». «Ci sentiamo in difficoltà perché non siamo abituati a pensarci come un Paese, non ragioniamo come una squadra fatta di imprese, scuole, lavoratori e politici: uno dei nostri pregi, l'individualità, rischia di trasformarsi in freno». La parola pessimismo non alberga nel vocabolario di Luciano Benetton. Lui dice perché quarant'anni fa, quando cominciò a fare maglioni, se n'era andato il primo governo di centro sinistra e l'economia stagnava: «Eppure non ci siamo fermati. Anzi. L'imprenditore ha nel dna il fatto che i problemi si affrontano e risolvono».
Facile a dirsi. Ma come si fa a risolvere il problema di una Cina che vende i tuoi stessi prodotti magari copiati alla metà del prezzo?
«Intanto dubito che i prodotti siano gli stessi. Saranno una copia. Ben fatta, nel migliore dei casi, ma sempre una copia. Se questo fosse stato il problema, quando 15 anni fa siamo andati in Cina con la prima joint venture non saremmo sopravvissuti».
Eppure il primo ministro cinese Wen Jiabao si è impegnato nella battaglia alla contraffazione…
«E certo: il primo ministro fa in modo che il suo Paese eviti di essere emarginato dalla comunità internazionale. La contraffazione si combatte con le leggi. Quando le dicevo che un sistema Paese si riconosce dal gioco di squadra intendevo esattamente questo: l'imprenditore crea nuovi prodotti, esplora mercati. Le leggi impediscono che il suo lavoro venga vanificato. Lo lasci dire a uno che fa moda: non c'era bisogno della Cina per accorgersi delle copie di prodotti che giravano per l'Italia, bastava andare in un mercatino. Evidentemente quello delle contraffazioni qualche anno fa non era una priorità».
Il campanello d'allarme è suonato quando l'Italia ha iniziato a perdere quote di export mentre ciò non accadeva per Francia e Germania.
«Sono Paesi-squadra, se hanno un problema sono abituati a risolverlo. Vede, quando si parla della Cina mi viene subito da pensare che io voglio essere competitivo nei confronti dell'America, in Europa e con i Paesi europei. La Cina viene dopo. Intendo dire insomma che Pechino non è un mostro e non può diventare un alibi. A cominciare dalle imprese».
Ma se fosse questione solo di buona volontà sarebbe facile.
«E chi l'ha detto? Ognuno deve fare la sua parte. Gli imprenditori, se vogliono restare competitivi nei momenti di crisi, sono obbligati a investire, tagliare gli sprechi, cercare l'efficienza. Così le banche devono accompagnare le nuove imprese, far crescere le altre. Non cercare scorciatoie, come si fece per il Nord Est».
Quali scorciatoie ha preso il Nord Est?
«Non fu il Nord Est a prendere scorciatoie ma il Paese a pensare che quello fosse il modello magnifico, il luogo dove la competitività si faceva impresa. In una logica in cui premiava il breve periodo, il profitto realizzato in pochi anni se non in pochi mesi. Lo sa cosa mi fa più paura della Cina?»
No, cosa le fa più paura della Cina?
«Che ragionano su tempi lunghissimi. E noi? A trimestre».
Estratto da Corriere della Sera del 5/05/04 a cura di Pambianconews