Gli uomini comprano sempre meno giacche, meno abiti: i consumi di capospalla, nell'autunno 2002, sono scesi dell'8%. Un calo che sta selezionando il mercato, visto che c'è chi- dopo un anno in cui i due maggiori acquirenti di abbigliamento formale maschile del made in Italy, Germania a Usa, crollare rispettivamente del -11 e -23%- invece di entrare in crisi cresce.
Brioni e Kiton, due marchi che hanno traslato la competenza del sarto in industria, sono due aziende diverse, per numeri e indotto, ma presidiano la cima della piramide qualitativa: abiti da due, tremila euro minimo, giacche costruite con 25 ore di lavoro e oltre 60 operazioni, un seguito fedele di personaggi come Kofi Annan o Gerhard Schr�der, uno zoccolo duro di imprenditori, finanzieri, uomini votati all'eleganza che, come sostiene Ciro Paone, il fondatore di Kiton, «non si infileranno mai un giaccone».
Una nicchia tutt' altro che esigua, se il fatturato di Brioni è passato in un decennio dai 25,8 milioni di euro degli anni '90 ai 157 milioni del 2002. 0 se Kiton ha dovuto aprire una nuova fabbrica accanto a quella storica, ad Arzano, per accogliere i suoi 400 dipendenti; e a New York ha comprato l'edificio del Banco di Napoli, all'angolo tra la 54ma a la Quinta strada, destinato a ospitare un nuovo negozio a la show room americana. «Certo, rispetto al passato, la crescita è stata inferiore, eravamo abituati a incrementi a due cifre – conferma il direttore generale di Kiton, Maurizio Maresca, che ha accompagnato il brand a oltre 35 milioni di euro -. Ma un utile in aumento del 7%, in un'annata come questa, è più che soddisfacente. Gli ordini the abbiamo raccolto sinora ci danno buone attese per il 2003». « Quando, negli anni '50, tutti tendevano a vendere localmente, Ciro Paone portava i suoi abiti in Germania ricorda Maresca – e 12 anni fa aggrediva il mercato russo in netto anticipo sui tempi a con una visione internazionale spiccata».
Lo stesso vale per Brioni, atelier trasformato in industria dal sarto abruzzese Nazareno Fonticoli e dal socio Gaetano Savini, che già nel ' 54 organizzava il suo primo fashion show a New York e che portò gli americani, con i suoi abiti da cocktail in seta dorata, a concepire un nuovo modo di vestire classico. Ancora oggi, l'America copre il 30% del business Brioni, che – al pari di Kiton – lavora per 1'80% sui mercati esteri. «A breve investiremo sull'Asia – spiega l' amministratore delegato di Brioni, Umberto Angeloni -, nel 2001 abbiamo aperto in Giappone una filiale diretta, per la distribuzione, cui è seguita la prima boutique a Tokio. In futuro valuteremo Cina a India, ma solo quando i mercati saranno maturi: dopo l'ubriacatura da griffe, come è avvenuto in Russia, è la clientela stessa a cercarci».
Nell'ultimo quinquennio entrambe le aziende hanno adottato anche lo strumento monomarca: Kiton quest' anno arriverà a sette negozi, con l'obiettivo di aprirne una ventina in tre anni, Brioni si pone come obiettivo finale 30 punti vendita: «Stiamo promuovendo anche la partnership in franchising – continua Angeloni soprattutto in aree come Corea, Hong Kong, Taiwan».
Da tempo i due marchi firmano un total look the va ben oltre l' abito e la giacca. Tutto prodotto in casa: Brioni ha nove aziende, specializzate ognuna in una merceologia; Kiton ha appena acquisito uno stabilimento a Parma, per la produzione della linea più informale, partita tre anni fa a arrivata all'8% del fatturato complessivo.
E la crisi del classico? « Riguarda soprattutto il segmento medio-alto, dove c'è una forte competizione. Nella fascia altissima- conclude Maresca- siamo in pochi: esistono i sarti come Caraceni, ma sono realtà piccole, strutturate come laboratori, non come industrie». E, se Brioni sforna 80 mila capi l'anno, non dimentica la « vecchia» sartoria: oltre all' atelier romano, tra breve aprirà anche quello milanese, con dieci sarti a disposizione dei cultori del su misura.
Estratto dal Corriereconomia del 24 febbraio a cura di Pambianconews