Gli stilisti della nuova generazione si sono misurati con le direzioni creative di importanti case di moda, in un confronto – come emerso dall’intervista al fashion editor Angelo Flaccavento – non sempre ‘alla pari’.
Sono state definite ‘direzioni creative pop-up’ o ‘usa e getta’. Proprio come i temporary store e le macchinette fotografiche, i percorsi stilistici dei giovani – talvolta giovanissimi – designer, all’interno di storici marchi del lusso, sembrano aver avuto, nelle scorse stagioni, una vera e propria data di scadenza. Un fenomeno recente quanto inaspettato ed immediato, che proprio come un domino ha visto cadere i nomi di molti stilisti a cui erano state affidate direzioni creative importanti di case di moda ricche di heritage. In ordine di tempo, tra gli emergenti, l’ultimo a dare il proprio addio alla direzione creativa è stato Ludovic De Saint Sernin da Ann Demeulemeester, che dopo soli sei mesi e il debutto alla fashion week parigina dello scorso marzo ha lasciato il proprio ruolo, sostituito ora dall’altrettanto giovane Stefano Gallici. Una settimana prima di De Saint Sernin, Rhuigi Villaseñor ha interrotto la propria collaborazione con Bally con solo due stagioni alle spalle, lasciando il proprio posto a Simone Bellotti. Mentre nelle settimane precedenti, Rochas, di proprietà del gruppo Interparfums, ha comunicato la rottura con Charles de Vilmorin, in carica da due anni. Tornando a marzo, è stato invece il turno di Trussardi, che a seguito delle dimissioni dell’intero consiglio di amministrazione ha salutato, dopo un sodalizio di due anni volto a rilanciare il brand, anche i direttori creativi Serhat I ik e Benjamin A. Huseby.
Dopo anni dove a catalizzare l’attenzione del fashion system sono stati i consueti grandi nomi, scambiatisi tra di loro come nel gioco delle sedie, gli emergenti si sono recentemente presi la scena internazionale, dando vita a quello che per molti addetti ai lavori è sembrato un primo passo verso il ricambio generazionale. Un cambiamento che, parallelamente al successo dei loro progetti personali, ha permesso alle nuove leve di dirigere gli studi di design di maison storiche. Eppure qualcosa, nelle valutazioni dei management dei grandi marchi e nelle strategie dei CEO che ne sono alla guida, deve non aver funzionato, portando la critica di moda a domandarsi: la nuova generazione di designer è pronta a raccogliere la sfida che può offrire una maison?
“Trovo che ci siano molte assegnazioni sbagliate nella moda di oggi. Sta avvenendo un ricambio generazionale, sì. Però lo si potrebbe definire in maniera più attenta e considerata se queste nomine durassero”, afferma Angelo Flaccavento, critico di moda ed editorialista per The Business of Fashion e Il Sole 24 Ore. “La mia impressione è che questi cambiamenti siano una saetta, perché magari alcuni direttori creativi vengono assunti per l’hype e il ritorno mediatico che sembrano avere nell’immediato, ma a volte si rivelano scelte poco avvedute e considerate. Ormai vengono presi dei giovani che hanno un’esperienza brevissima con i loro stessi marchi e che quindi non hanno la capacità di flettere un linguaggio personale a seconda del canale (il brand) attraverso il quale lo veicolano. Si cerca il ritorno immediato. Quello che trovo manchi spesso è il progetto di lunga durata, mentre la moda tende a vivere dei tempi sincopati, dove tutto si consuma nel momento stesso in cui avviene”. Direzione creativa – continua Flaccavento – “vuol dire applicare ad un marchio la visione personale del designer chiamato a ricoprire quel ruolo, nel rispetto del codice della maison di riferimento. E per fare questo bisogna avere una certa esperienza”.
Proprio l’esperienza è quello che più manca alla new wave, che in un contesto saturo come il mercato attuale è sempre più spinta alla ricerca del singolare e di una propria firma distintiva. Un elemento sicuramente importante per un emergente, ma che da solo non basta. “Da una parte – spiega Flaccavento – c’è la mancanza di esperienza, dall’altra la formazione di questi designer è incompleta. Non sempre le scuole di moda riescono nel formare i loro studenti come designer a 360 gradi. Viene insegnato loro a creare una ‘sigla’, e questa riconoscibilità viene fatta passare come il mezzo per sopravvivere in un mercato che è sempre più mare magnum. Se questo può comunque essere apprezzabile, il rischio è quello di cadere in una certa monotonia. Molti dei designer che sono emersi negli anni hanno avuto un’idea. C’è chi è stato poi capace di evolvere quell’idea in qualcos’altro e chi invece si è fermato dopo cinque o sei anni”.
Contemporaneamente però c’è spesso anche l’impossibilità di esprimersi al meglio delle proprie capacità e volontà, perché bisogna anche tenere conto delle linee guida che vengono date a un creativo dai conglomerati (i grossi gruppi proprietari dei fashion brand), che di base ragionano solo sui fatturati. “Alle volte un designer ha anche poca libertà di esprimersi, in un gioco che vede un continuo compromesso tra quello che vuole la proprietà e quello che riescono a ottenere lo stilista e l’amministratore delegato”.
É ormai noto che per salire alla direzione creativa di un marchio bisogna oggi, in molti casi, essere anche un po’ ‘personaggio’, avere un certo seguito e riscontro mediatico. Bisogna essere social e strizzare l’occhio alla nuova generazione di consumatori. E in un mondo dove tutto viaggia imperterrito alla massima velocità per emergere si cerca di creare buzz mediatico, rumore. “Penso alla nomina di Ludovic De Saint Sernin: mettere un nome così esposto mediaticamente – precisa Flaccavento – alle redini di un marchio guidato da una designer che quasi non si vedeva era sembrata comunque una scelta strana, ma motivata dalla volontà di volersi chiaramente inserire nello scenario contemporaneo, che richiede una grande esposizione del marchio attraverso tutti i canali. Penso che ogni tanto ci siano delle scelte fatte per mismanagement del ruolo del direttore creativo e con l’idea che questo possa portare attenzione e audience sul marchio, senza però poi lavorare concretamente sulla materialità degli abiti”.
“Poi – aggiunge Flaccavento – ci sono anche casi di creativi come Walter Chiapponi (che proprio in questi giorni presenterà la sua ultima collezione per Tod’s, ndr) che a mio avviso ha fatto un lavoro egregio nel grandissimo rispetto del codice di Tod’s, declinato con grande raffinatezza e disegno, allontanato però perché non estremamente mediatico come figura”. L’esempio più esplicito di un direttore creativo, seppur non emergente, nominato per diventare subito virale è Pharrell Williams da Louis Vuitton, per cui ha presentato la prima collezione lo scorso giugno. “Quello di Vuitton può essere un progetto che funziona sul momento, ma che non riscrive la storia. È una nomina che non ha il mio personale plauso, perché trovo che essere escluso dall’incarico più alto rispetto alla ‘piramide creativa’ sia diminuente per il professionismo di chi si è formato. Al contempo però capisco che il ritorno di immagine che Pharrell può portare a Vuitton è incommensurabile rispetto a qualsiasi scelta avrebbero potuto fare, sempre rispetto al pubblico presso il quale si vogliono affermare”.
Il panorama moda attuale non è più compatibile con il concetto di ‘era’ stilistica? Non ci sono più i Karl Lagerfeld e i Tom Ford di un tempo, e anche gli stilisti che hanno segnato un’epoca per i marchi cui erano alla guida, come Jeremy Scott da Moschino o Alessandro Michele da Gucci, hanno dovuto lasciare la propria poltrona di fronte ai cambiamenti del mercato. Fare quindi oggi un confronto con le direzioni creative del passato diventa complesso, in quanto le direzioni odierne possono definirsi già lunghe se superano i quattro anni, in un meccanismo che permette al brand di prevalere sempre sulla creatività del singolo stilista. “La ricchezza creativa di uno stilista del passato è non raggiungibile oggi, per il tipo di bombardamento mediatico e per la gestione dei marchi”, spiega Flaccavento. “Io sono favorevole all’emergere di una nuova generazioni di creativi, ma trovo che alle volte vengano esposti in ruoli molto importanti per quel che riescono a fare e che questo poi li sminuisca, perché non sanno mantenere quello su cui hanno lavorato o sui cui dovrebbero lavorare”.
È anche un fatto di assuefazione del mercato, dove alla prima flessione dello stesso si tende a cambiare creativo. Un’uscita che ha stupito molti insider lo scorso novembre è stata proprio quella di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci dal 2015 al 2022. Nonostante i grandi successi ottenuti, sia in termini economici che stilistici, il designer romano è stato gentilmente accompagnato alla porta, ‘colpevole’ probabilmente di non essere sceso a compromessi con una domanda che la sua creatività non sarebbe riuscita a soddisfare. Questo anche perché la sua visione, che era già di per se massimalista, nell’arco di sette anni si è saturata, allontanandosi gradualmente dai desideri correnti dei consumatori.
“Da una parte però – conclude Flaccavento – la direzione creativa breve può anche essere un esperimento interessante per la riconoscibilità della stessa maison. Quello che rimane dopo l’addio in un designer è sempre l’aura di un marchio, che dovrebbe essere superiore a quella del creativo stesso. Togliendo per un attimo chi legge la moda da vicino, nell’immaginario collettivo il potere perdurante di Gucci è più forte ad esempio di quello di Michele. E la fascinazione rimane, sempre. La ragione per cui molti designer non lanciano la propria linea, ma lavorano come direttori creativi è proprio perché il potere di fascinazione di un marchio storico, per quanto l presente sia lontano dalla storia reale del brand, è fortissimo”.