Se i distributori di moda e lusso spingessero sui marchi di loro proprietà diretta potrebbero avere un significativo incremento di redditività e immagine presso la clientela. Attraverso la razionalizzazione del business e la capacità di gestire la complessità della Corporate Social Responsibility (CSR), la massimizzazione dei vantaggi competitivi delle proprie private label potrebbe rappresentare un cambiamento strategico nel modello dei grandi magazzini. Lo ha riscontrato uno studio realizzato dall’International Association of Department Stores (Iads), che ha calcolato come l’incidenza media delle private label sul fatturato complessivo dei suoi membri sia passata dal 9% nel 2019 al 16% del 2022. I motivi principali non sono legati solamente all’incremento degli investimenti in queste etichette, iniziato già prima della pandemia, ma all’impatto del Covid-19, che ha portato alcuni consumatori ad abbandonare i marchi nazionali a favore di private label più economiche.
Iads giunge alla conclusione che nonostante le difficoltà che le private label devono affrontare, i loro livelli di margine sono più generosi rispetto ad altri modelli di business presenti nei grandi magazzini, i quali, per lanciarle, possono sfruttare l’ampia portata della loro reputazione e delle loro risorse. Ecco perché queste etichette di proprietà diretta dei distributori rappresentano un vantaggio competitivo chiave che potrebbe rivelarsi molto redditizio per i department store, sostiene lo studio, a condizione che ricevano l’investimento e l’attenzione necessari e che si superi la convinzione radicata tra i consumatori che le private label dovrebbero puntare su prezzi bassi.
Dopo il coronavirus, le interruzioni della catena di fornitura hanno avuto un impatto continuo sulle private label, a seguito dell’aumento del costo delle materie prime e dei trasporti. E il 2022 non ha aiutato, con la guerra scoppiata in Ucraina, le carenze energetiche o i severi lockdown ‘zero Covid’ in Cina. Ora i department store hanno cominciato a precorrere le tempistiche di produzione più lunghe favorendo una produzione più ravvicinata, in modo da ridurre la dipendenza dai fornitori cinesi. Le misure che hanno cominciato ad adottare sono state la prenotazione delle materie prime con largo anticipo, l’anticipazione della pianificazione della produzione (che consente di risparmiare fino a 2 mesi), e una supply chain spostata verso i Paesi del sud-est asiatico (+6% l’anno scorso) e della zona euromediterranea (+1,5 per cento). Ma questo ha un prezzo: i costi di produzione possono variare fino al +3% tra Cina ed Euromed e diminuire dal -4 al -8% in altre nazioni del sud-est asiatico. Un cambiamento così importante implica un aumento dei costi dei materiali e quindi dei prezzi al dettaglio, prezzi sui quali i distributori hanno anche dovuto scaricare la curva della crescita inflazionistica. Il che solleva due questioni: l’aumento dei prezzi retail è un obbligo o una scelta strategica? E quanto i consumatori sono disposti a pagare per le private label?
Ciò ha aperto il dibattito sulla necessità di posizionarsi in un segmento di fascia alta per giustificare i nuovi prezzi. Alcuni grandi magazzini lo vedono come un modo per competere con i marchi internazionali, mentre altri si sono posizionati nel segmento dei basic d’alta qualità. Negli Stati Uniti, Target ne è un esempio: il prezzo non è più la motivazione principale per l’acquisto di private label, ma piuttosto il loro rapporto qualità-prezzo. Inoltre, una ricerca della Iads Academy (laboratorio di mentoring su misura che l’associazione ha avviato 27 anni fa) ha dimostrato che percentuali di sconto elevate non migliorano le vendite, il che depone a favore della ‘premiumizzazione’. In altre parole, il prezzo non è più un punto di forza per le private label come in passato. Infatti, i marchi dei membri dello IADS con i margini lordi più elevati sono quelli più venduti.
Rimangono sul tavolo molte domande: come misurare il prezzo limite? La premiumizzazione consiste nel dare maggior valore ai prodotti del marchio stesso o nel conquistare una nuova fetta di pubblico? Come creare una private label forte che possa convivere con il marchio della catena che l’ha creato, senza dedicarvi troppe risorse, economiche o umane? Infatti, escluso Marks & Spencer, tutti i department store analizzati non hanno un proprio marchio omonimo. Inoltre, nel caso di Target, la promozione dei propri brand generalmente va di pari passo con l’apertura di shop-in-shop e la creazione di campagne pubblicitarie, iniziative che possono essere molto costose e rischiose. Tra gli altri provvedimenti presi per migliorare redditività e valore delle loro private label, i membri di Iads rivedono costantemente l’offerta: El Corte Inglés ne ha ridotto il numero per trasformarle in veri brand (come Sfera e Unit nel segmento della moda giovane), El Palacio de Hierro ha lanciato un piano a cinque anni che unisce lavoro sulla riconoscibilità del marchio e riorganizzazione operativa, mentre Galeries Lafayette e Manor hanno raddoppiato gli sforzi su specifiche categorie di prodotti (come la casa, oppure il cashmere o le camicie da uomo).
La trasparenza totale rappresenta la sfida più grande e la più grande aspettativa dei clienti in questo settore. Tutti i membri di Iads stanno incrementando gli sforzi nella Csr e aumentano la quota di prodotti eco-sostenibili. L’ambizione è quella di realizzare collezioni sostenibili al 100% entro il 2024 o il 2025 (l’etichetta Go for Good è già presente sul 68% delle private label di Galeries Lafayette, ad esempio), e perseguire altri sforzi strutturali, come ridurre gli imballaggi utilizzati. Nel caso della conformità sociale, dell’auditing, della riduzione del rischio e delle partnership, Breuninger aiuta i propri fornitori a rispettare la Bsci (Business Social Compliance Initiative), mentre Galeries Lafayette monitora gli impianti di produzione dei propri fornitori e si rivolge a terze parti come Emmaus, il movimento di solidarietà parigino fondato nel 1949 dall’Abbé Pierre. Altro nodo: come far conoscere alla clientela che sono state prese tutte queste iniziative? Molti department store hanno posto dei QR code sui prodotti con link che indirizzano a siti web dedicati, con un impatto su costi operativi e prezzi finali. In ogni caso, trovare il modo giusto per comunicare chiaramente gli sforzi sostenibili e sociali, nonché le informazioni legali, per i grandi magazzini rimane ancora un grattacapo.
Fondato nel 1928, Iads rappresenta oltre 26 miliardi di euro di fatturato annuo cumulato, realizzato da oltre 360 negozi e 190mila dipendenti in 19 Paesi. I suoi membri permanenti includono Centro Beco (Venezuela), Beijing Hualian Group (Cina), Breuninger (Germania), El Corte Inglés (Spagna), El Palacio de Hierro (Messico), Galeries Lafayette (Francia), Lifestyle International Holding (Hong Kong), Magasin du Nord (Danimarca), Manor (Svizzera), Sm Store (Filippine), The Mall Group (Thailandia).