Da alcune settimane gli economisti stanno lanciando un allarme sull’euro. Nei giorni scorsi la valuta europea è arrivata a 1,05 su quella statunitense, piombando a valori che non si vedevano dal 2017 e gli esperti prevedono un ulteriore calo. Secondo un comunicato di Sace, la società specializzata nel sostegno alle imprese italiane, il trend ribassista è iniziato lo scorso autunno e negli ultimi mesi è avvenuta una netta accelerazione che, aggiunge, potrebbe portare ad un “ulteriore deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro verso la parità entro la fine del 2022, per la la prima volta dal 2003”. Uno scenario di cui però potrebbe beneficiare la moda ed il settore del travel retail europeo, seppur all’orizzonte sono evidenti anche le criticità sul fronte dei rincari legati alle materie prime.
I motivi che stanno portando a una sostanziale parità tra le due valute sono legati sostanzialmente a due fattori. Da una parte il disallineamento di politiche monetarie tra la Fed statunitense e la Bce di fronte alla normalizzazione della politica monetaria, ovvero l’inflazione. L’organismo americano è più orientato a innalzare i tassi di interesse in maniera più marcata nel tentativo di rallentare la peggiore inflazione del paese degli ultimi 40 anni, aumentando il valore del dollaro rispetto a molte valute. Di contro, la Bce sta sperimentando un atteggiamento più “accomodante”. L’altro elemento che ha innescato una rapida discesa dell’euro è stata la crisi energetica dell’Ue legata al conflitto armato in Ucraina, che ha fatto emergere le falle di una politica energetica troppo dipendente dalle forniture di Mosca.
Come anticipato, una delle principali conseguenze di questo trend ribassista si assisterà sul caro materie prime essendo le commodity nella maggioranza dei casi denominate in dollari. Per le imprese del fashion è una cattiva notizia che si aggiunge ai rincari che si sono susseguiti già da diverso tempo. Tuttavia, l’altro lato della medaglia di un pareggio tra euro e dollaro potrebbe essere quello legato ad una maggiore spinta negli acquisti da parte del mercato nordamericano. Come segnala Business of fashion, “un euro più debole e un dollaro più forte hanno alcuni vantaggi per il settore del lusso in gran parte con sede in Europa, che potrebbe godere di una spinta ai margini e di vendere più facilmente ai viaggiatori dal dinamico mercato statunitense”.
Come precisa la testata, un euro più debole rispetto al dollaro aumenterà i margini di profitto. “I marchi di lusso sono per lo più aziende europee i cui costi sono in gran parte in euro, dagli stipendi aziendali agli impianti di produzione agli affitti dei flagship store in Avenue Montaigne e via Montenapoleone – si legge – . Allo stesso tempo, ogni vendita effettuata nel dinamico mercato statunitense varrà di più se riconvertita in euro”. Inoltre, aggiunge Bof, “Nonostante tutti i loro discorsi sull'”armonizzazione” dei prezzi tra le regioni, è improbabile che i marchi trasmettano il tasso di cambio favorevole ai consumatori con sede negli Stati Uniti. Si verificano movimenti volti a pareggiare i prezzi tra le regioni, ma di solito solo in una direzione: verso l’alto”.
Il risultato è presto detto: una differenza sostanziale nei prezzo dei beni di lusso tra il mercato europeo e quello statunitense potrebbe portare ad un incremento sostanziale anche nel settore travel retail, considerato soprattutto il ritorno in gran numero dei turisti americani in Europa e in Italia e, appunto, i prezzi più allettanti dei beni di lusso rispetto allo shopping negli Usa.
Secondo Gianfranco Di Natale, direttore generale di Smi-Sistema Moda Italia, i vantaggi più interessanti potrebbero arrivare però più che per il lusso, per il segmento medio-alto e premium. “Per il lusso non penso che che un dollaro forte o doble che possa incidere in modo sostanziale sulla volontà di spesa perché chi si muove verso quel tipo d prodotto non lo fa in base al prezzo” spiega a Pambianconews. Discorso diverso sugli altri segmenti di mercato. “Un analisi interessante va fatta, invece, verso il resto del made del made in Italy. Basta guardare il trend storico delle esportazioni di consumi di prodotti negli Usa. Mentre l’export italiano verso gli Stati Uniti è cresciuto in modo deciso fino a 2000, da allora in poi abbiamo assistito a un appiattimento della crescita. Un nuovo balzo è avvenuto nel 2016, quando c’è stata forte rivalutazione del dollaro. Successivamente si è notato che quella accelerazione forte che si è avuta è andata a scemare l’anno successivo quando il valore del dollaro è sceso. Questo significa che per il made in Italy non di lusso uno scenario come quello attuale potrebbe essere molto interessante”.