In pieno lockdown si è acceso il dibattito su un nuovo modello per la moda. Il centro della discussione è stato il concetto di slow fashion, ossia di rallentamento dei tempi lungo la filiera del prodotto. Ma si è parlato anche di libertà dei tempi, ossia di appuntamenti non vincolati ai calendari dettati dal sistema.
Su quest’ultimo tema c’è stata meno riflessione di quanto meritato. Mentre, infatti, sulla questione del rallentamento e conseguente riduzione delle collezioni non si è registrato un generale consenso da parte del lusso, l’autonomia nelle sfilate sembra già essere un fattore tangibile.
I casi estivi di Gucci e di Dior dimostrano la forza di attrazione che Internet e i social media consentono ai singoli appuntamenti. Il brand francese, nella sua kermesse di Lecce, è arrivato a stimare 20 milioni di visualizzazioni, quello italiano addirittura 35 milioni nella sua diretta da 12 ore per l’ultima giornata della Milano Fashion Week online.
La dimensione digitale aveva già una sua rilevanza in epoca pre-Covid. Il lockdown, tuttavia, ne ha amplificato il peso nelle strategie di comunicazione e posizionamento dei brand. Con la conseguenza di rendere tali strategie più fluide e continuative nel corso dell’anno.
Il Covid, quindi, più che incidere sul rallentamento dei tempi o sulla riduzione dell’offerta, avrà sicuramente un effetto disruptive sull’identità delle fashion week, che, nei confronti di griffe capaci di muovere autonomamente decine di milioni di spettatori, perdono il proprio valore aggiunto: essere un volano di pubblico. Mentre, in prospettiva, saranno ancor più un momento cruciale di visibilità, anche e soprattutto digitale (con le proprie piattaforme dedicate), per i marchi in cerca di affermazione.
Per le fashion week, insomma, si tratta di confrontarsi con quanto già avvenuto negli appuntamenti fieristici, in cui la forza d’attrazione non è data dalla presenza dei big. Ma dalla molteplicità delle novità.