Il problema dello smaltimento dei prodotti di moda è esploso negli ultimi due anni, coinvolgendo in modo trasversale tutti i segmenti. Nel luxury si sono accesi i riflettori quando Burberry ha inserito nel bilancio 2018 i numeri sulla eliminazione delle proprie rimanenze per 32 milioni di euro. Nell’hard luxury, invece, ha fatto scalpore scoprire che, sempre un paio d’anni fa, Richemont ha distrutto mezzo miliardo in orologi per evitare di metterli nei circuiti commerciali. E poi c’è il fast fashion. Mentre per il lusso la questione si concentra sulla necessità di una più efficace gestione dei magazzini, per il fast fashion il problema è assai più strutturale. Si tratta, infatti, di mettere in discussione i paradigmi che hanno cambiato i costumi di consumo a cavallo del millennio, imponendo l’idea dominante del low cost. Una formula che ha associato il concetto di prezzo basso alla possibilità di molteplici acquisti e cambi di indumento continui. Tutto ciò ha però portato a un incremento esponenziale dei volumi di merce sul mercato, decine di milioni di pezzi ogni anno. Il costo che era ‘low’ per l’industria, nascondeva un costo tutt’altro che ‘low’ per il sistema. Per le filiere produttive supersfruttate negli angoli più lontani del pianeta. E poi per il pianeta stesso, incapace di ‘digerire’ le montagne di magliette prodotte ogni mese. Nei tempi più recenti sono evidenti gli sforzi di sostenibilità avviati dai gruppi che hanno guidato e dominato la rivoluzione ‘low cost’, la spagnola Inditex e la svedese H&M. Si tratta di sforzi colossali, in termini di materia prima utilizzata, di gestione della filiera e, infine, anche di ‘disperati’ tentativi di riciclo, attraverso la raccolta degli abiti usati presso i propri punti vendita. È chiaro, tuttavia, che i margini di recupero sono limitati. Il problema gigantesco resta il ‘fast’ impresso nel Dna di questi marchi, un ‘fast’ destinato a evolvere in qualcosa di differente. Ebbene, in questo qualcosa di differente si aprono orizzonti importanti per il made in Italy. Ovvero, per produzioni dalle radici attente all’ambiente e all’ambito sociale, con imprinting di creatività e artigianalità, e soprattutto con la pretesa di essere durevoli nel tempo grazie alla qualità di fattura e alla personalità intrinseca. L’opposto del ‘fast’. Sul piano socio-culturale, insomma, la prospettiva del made in Italy appare piuttosto luminosa nell’epoca del post fast fashion.