Gli specialisti del menswear non hanno dubbi: “Aprire a collezioni femminili non è strategico”. A rischio ci sarebbe la qualità del made in Italy.
Menswear only. È una scelta di coerenza, quasi identitaria, quella degli specialisti della moda maschile italiana, che, pur forti di un marchio riconoscibile e spendibile, scelgono di non aprire al segmento donna, ma di portare avanti la strategia di fidelizzazione di un target specifico che, fino ad ora, ha saputo premiare i loro sforzi. Alla differenziazione della customer base in termini di genere, i “puristi” del menswear preferiscono infatti la specializzazione nella ricerca, nella manifattura, nell’interpretazione delle tendenze e nella comunicazione, ponderando ogni scelta in ottica di crescita all’estero.
EXPORT IN FRENATA
I dati congiunturali del settore, del resto, inquadrano un 2016 in lieve crescita, anche se il rallentamento delle vendite fuori dai confini nazionali suggerisce cautela per il 2017. Secondo i dati di Sistema moda Italia, diffusi alla vigilia della 91esima edizione di Pitti Uomo, il fatturato della moda maschile ha registrato un +0,9% nel 2016, sfiorando i 9 miliardi di euro, a fronte del +1,5% messo a segno nel 2015. Sul fronte dell’export, nei dodici mesi la crescita delle vendite è stata dell’1,9% a quasi di 5,8 miliardi di euro, in rallentamento rispetto al +2,3% del 2015. A livello globale, le stime al 2020 di Euromonitor inquadrano per il segmento uomo un tasso medio di crescita annuo del 2,3%, leggermente superiore al 2,2% del womenswear. In Europa, l’uomo metterà a segno una progressione dello 0,7%, la donna dello 0,4%, mentre in Nord America l’aumento rispettivo sarà del 2,1% e dell’1,3 per cento. La moda donna continuerà a rappresentare il mercato più grande (639 miliardi di dollari nel 2016, contro i 417 dell’uomo), ma il divario è destinato a diminuire.
COERENZA E SPECIALIZZAZIONE
“In una fase come quella attuale – ha raccontato a Pambianco Magazine Umberto Angeloni, AD di Caruso – dove nessun prodotto è immune al rallentamento della domanda, e dove il consumatore finale è informato e selettivo rispetto all’offerta, la strategia più rischiosa per un brand è il cambio di target o l’apertura a target molto diversi da quelli che ne hanno accompagnato lo sviluppo”. Per il manager il principio vale a maggior ragione per il menswear italiano che non incarna solo una gamma di prodotti, ma anche un imprinting culturale, un modo di produrre e un’estetica precisa: “Buttarsi nell’avventura womenswear rischia di andare a scapito della qualità di ciò che già facciamo, della qualità del made in Italy”, ha continuato Angeloni. Nel 2016 l’Italia ha visto tornare in positivo il valore della produzione, un dato significativo perché dovrebbe stimare il valore dell’attività produttiva nazionale, al netto della commercializzazione di prodotti importati. Nell’esercizio appena concluso, sempre secondo le rilevazioni di Smi-Sistema moda Italia, il dato è previsto in progresso dell’1,2% contro un valore negativo del 3,5% del 2015. L’abbigliamento maschile d’alta gamma gioca la propria partita sulla qualità, conquista che non può essere messa a rischio dai “fenomeni” della moda, come la recente rottura dei confini tra i generi. “L’heritage di un brand – ha spiegato Stefano Canali, direttore generale di Canali, a Pambianco Magazine – è la sua storia e il suo futuro allo stesso tempo. Per conquistare i mercati esteri serve coerenza. Le aziende devono mantenersi fedeli al proprio dna, e quello di Canali è un dna maschile da 80 anni. Per questo, se mai in futuro la nostra azienda decidesse di approdare nel segmento donna, credo lo farebbe con l’acquisizione di un marchio femminile”. Tra i driver di crescita identificati dall’azienda lombarda, i cui mercati di riferimento oggi sono gli Stati Uniti, la Greater China e la Russia, c’è la personalizzazione dei capi, sempre più richiesta dalla fascia high spending, e metro della competenza sartoriale delle girffe. Specializzazione, ma in termini di monoprodotto e di linee dedicate a diverse nicchie del pubblico maschile, anche per Cover50 che, pur avendo lanciato una linea di pantaloni alto di gamma da donna nel 2012, conferma la preponderanza del menswear nel business attuale e nei progetti futuri, oltre alle crescenti attività di ricerca sul prodotto: “Il consumatore oggi conosce l’offerta più che in passato – ha dichiarato a Pambianco Magazine Edoardo Fassino, AD di Cover50 – e questa va studiata e arricchita senza allontanarsi troppo dalle categorie in cui si è maturato un know how preciso”.
MASCHI CONTRO FEMMINE
Altrettanto indubbio, per le aziende intervistate, il fatto che moda maschile e femminile sottintendano modelli di business diversi per approccio creativo, sviluppo delle categorie merceologiche e strategie di vendita. “Sono due mondi differenti – ha raccontato a Pambianco Magazine Stefano Ricci, fondatore e presidente dell’omonima casa di moda -. La donna vive di emozione, l’uomo ricerca la qualità. Sin dalla fondazione della mia società, nel 1972, ho sempre pensato di concentrare ogni sforzo esclusivamente sulla moda uomo. Non anticipo né seguo le tendenze. È un mondo che non mi appartiene. Vesto l’uomo, in ogni momento della giornata”. Manifattura Paoloni, che in portfolio ha marchi da uomo come Paoloni e Manuel Ritz, ma anche realtà in crescita con entrambi i generi come Msgm, fa i conti con il diverso posizionamento delle controllate: “L’assetto strategico di ognuno, ben differente dall’altro, ci permette di fare scelte di campo delineate, dove ogni brand si propone come specialist ed eccellenza di un determinato segmento”, ha commentato Fabrizio Carnevali, AD del gruppo. Sia quest’ultimo sia Stefano Ricci, tra i big names di Pitti Uomo, riconoscono alla manifestazione fiorentina un ruolo di riferimento per lo stile maschile e, di conseguenza, di appuntamento irrinunciabile, alla pari di Milano Moda Uomo per chi sceglie la passerella. “Il menswear italiano e le piazze di Firenze e Milano godono di un’altissima percezione all’estero. Il rischio, per gli specialisti del menswear che volessero ampliare gli orizzonti alla moda femminile è quello di non rouscire poi a rendere appieno la qualità del marchio”, ha confermato a Pambianco Magazine Paolo Roviera, nominato CEO di Corneliani la scorsa estate, precisando come nonostante l’alta credibilità e spendibilità del marchio Corneliani, l’azienda abbia oggi delle dimensioni “relativamente piccole” (il 2016 si è chiuso con un fatturato leggermente superiore ai 110 milioni di euro) per sperimentade sul lato donna. “Nulla è impossibile, ma c’è ancora molto da fare nei settori in cui siamo già bravi. Non abbiamo ancora esplorato appieno tutte le categorie merceologiche del menswear, partendo dagli accessori e dallo sportswear, e oggi dobbiamo anzitutto ampliare la distribuzione all’estero”, ha continuato l’AD, che inoltre chiude le porte al fenomeno agender. A fargli eco, Lello Caldarelli, presidente e direttore creativo di Antony Morato, che riconosce inoltre al menswear una maggiore programmabilità delle strategie: “La clientela maschile è molto più fedele di quella femminile. Il segreto nel nostro settore non è avere un pubblico molto vasto, ma fidelizzare i clienti. In store, inoltre, l’uomo cerca garanzie, punti di riferimento e apprezza la vendita assistita, mentre la donna preferisce l’effetto sorpresa”, ha concluso Caldarelli. Fuori dal coro, pur confermando un’offerta e un approccio esclusivamente maschile, il caso di Stone Island, che vede il pubblico femminile avvicinarsi alle proprie collezioni e contribuire alla crescita del brand. L’azienda ha chiuso il 2016 con un fatturato di oltre 105 milioni di euro (+20% sul 2015 e +100% sugli ultimi cinque anni) con un ebitda pari a 18 milioni (+35% sul 2015). “Il brand – ha affermato il direttore creativo e presidente Carlo Rivetti – sta vivendo un momento tale che molte ragazze si sono avvicinate a Stone Island e scelgono i nostri prodotti”.
di Giulia Sciola