Agli stilisti non basta il ruolo in azienda. Lanciare marchi propri è un’opportunità, ma anche un’assicurazione sul futuro. Però non sempre l’equilibrio è quello giusto.
Dicono che, a un certo punto nella vita, arrivi il momento di volare da soli. Niente di più vero. Anche se, vada come vada, meglio avere una rete di protezione.
I designer, sempre più spesso, affiancano al lavoro in un’azienda, un proprio progetto. Il cui sviluppo, però, almeno finché la nuova avventura non diventa seria, viene portato avanti senza abbandonare la poltrona del brand di cui sono spesso direttori creativi o responsabili di linee o prodotti.
A fine luglio, diverse mosse in questo senso hanno acceso i riflettori su una tendenza che sembra diventare prassi consolidata. Fabrizio Viti, direttore creativo delle scarpe di Louis Vuitton, ha presentato alla settimana parigina della couture la nuova linea di calzature che porta il suo nome. Da 20 anni guru delle scarpe in Europa (prima dei 12 anni nel brand di Lvmh, ha lavorato anche per Prada e Gucci), Viti ha fatto sapere di “voler esprimere qualcos’altro”. Rimarrà comunque sulla poltrona di Louis Vuitton, sotto la direzione di Nicolas Ghesquière, ma nel frattempo ci proverà anche e soprattutto con la sua collezione.
Il settore, evidentemente, lo tiene in grande considerazione, considerato che il prestigioso department store francese Colette ha già firmato per un lancio della linea durante la settimana della moda di Parigi a settembre. Sempre prima dell’estate, un altro veterano della moda (che ha però avuto un ruolo lontano dai riflettori) ha annunciato il lancio della sua nuova linea, questa volta di menswear. Si tratta di Robert Childs, per anni braccio destro di Thom Browne e più di recente a capo del design uomo di Opening Ceremony. “Mi sento molto bravo a interpretare le idee degli altri e lo voglio fare da solo”, ha spiegato il creativo. “Desidero testarmi e trovare la mia voce, capire se riesco a fare colpo sugli altri”. Un messaggio chiaro: dopo la gavetta, Childs si sente in grado di volare da solo.
PERCORSI ALTERNATIVI
Le mosse di Viti e Childs segnalano un valore ritrovato degli stilisti, la cui figura ha passato fasi molto differenti nel corso degli ultimi due decenni: dallo stilista-imprenditore degli anni 90, allo stilista al servizio dell’azienda fino allo stilista-manager, alla Christopher Bailey in Burberry. Il recente ripensamento del gruppo inglese (Bailey dallo scorso luglio non riveste più la doppia carica di CEO e direttore creativo, ma solo quest’ultima), peraltro, indica come resti assai complesso l’equilibrio tra i ruoli creativi e quelli gestionali. Anche questo difficile connubio, probabilmente, spinge i designer a cercare altre strade per affermarsi al di fuori dell’azienda di cui fanno parte, per quanto quest’ultima sia servita da trampolino di lancio. Come a dire: mentre ci si sporca le mani dietro le quinte di un grande marchio e se ne scalano i vertici con una buona dose di gavetta, nulla vieta di sviluppare parallelamente il proprio gusto e le proprie idee, per poi metterle in pratica al momento giusto. Una pratica che in parecchi hanno tentato, con alterne fortune. Tra i casi recenti italiani meritano una menzione il percorso di Andrea Incontri e Fausto Puglisi che, pur continuando a mantenere ruoli di spicco per brand famosi (uno è niente meno che direttore creativo dell’uomo di Tod’s, l’altro di Ungaro), hanno dato vita a linee di cui spesso si è parlato quasi di più. Discorso simile per Nicola Formichetti, capo dello stile di Diesel, attivo anche con la propria linea, Nicopanda. Un caso di scuola, negli anni scorsi, è stato quello Antonio Marras, impegnato a lungo contemporaneamente con la guida stilistica di Kenzo e con la linea che porta il suo nome. A livello internazionale, sono diverse le situazioni di convivenza. Tra gli ultimi, si possono citare J.W. Anderson, a capo dello stile di Loewe e insieme impegnato con il proprio brand, il super attivo Jason Wu, appena approdato in Hugo Boss, o Alexander Wang (in Balenciaga fino allo scorso anno). Andando a ritroso, il ‘dual tracking’ ha caratterizzato anche nomi storici, come quelli di Karl Lagerfeld, John Galliano e Marc Jacobs che, nonostante i plurimi incarichi, hanno saputo valorizzare i propri brand. Addirittura, Marc Jacobs firmò una joint venture con Lvmh che entrò nel capitale del marchio americano. Nella stessa impresa sono riusciti Tomas Maier (stilista di Bottega Veneta) con Kering e Marco De Vincenzo (creativo di Fendi) sempre con Lvmh. Ma non sempre il doppio binario prosegue all’infinito. Si prenda il caso di Arthur Arbesser che si è appena separato da Iceberg. In questo caso, la rete di salvataggio produrrà la situazione bizzarra che vedrà lo stilista sfilare comunque a Milano, mentre l’ex-committente ha cancellato l’evento. Caso opposto quello di Anthony Vaccarello che, sempre nelle scorse settimane, ha congelato il proprio brand per concentrarsi sulle collezioni di Yves Saint Laurent, di cui è direttore creativo dallo scorso aprile. In questo caso, l’aura protettrice del grande brand ha reso inutile la rete di salvataggio.