Da Maria Grazia Chiuri ad Alessandro Michele. Una nuova leva di fashion designer cresciuti all’interno delle maison caratterizza l’attuale panorama del lusso.
Sarà la sfilata più attesa della prossima fashion week parigina, probabilmente dell’intera stagione. Il 30 settembre Maria Grazia Chiuri presenterà la sua prima collezione Dior prêt-à-porter come direttore creativo della storica maison, unica donna a ricoprire tale ruolo e seconda italiana dopo Gianfranco Ferré. Il suo percorso professionale è rappresentativo di una generazione di creativi che, dopo lunga gavetta, vede spalancarsi le porte principali dei marchi del lusso più prestigiosi. Forti di un’esperienza decennale negli uffici stile di griffe importanti, riescono a emergere quasi dal nulla prima di caratterizzare un marchio con la propria estetica e incontrare il favore di pubblico e critica. Talvolta affinano le proprie capacità proprio all’interno dell’azienda che, complice un fortuito giro di poltrone, li premia con un upgrade d’eccezione.
IL CASO MICHELE
Il fenomeno, negli ultimi mesi, è esploso grazie all’ascesa di Alessandro Michele, talento pressoché sconosciuto fino all’inaspettata decisione del gruppo Kering di affidare a lui le redini di Gucci in seguito al burrascoso allontanamento di Frida Giannini, da quasi dieci anni al timone del marchio fiorentino dopo la parentesi Alessandra Facchinetti e l’era Tom Ford. Il giovane stilista è riuscito, in una manciata di mesi, a rimodellare completamente l’appeal di Gucci, introducendo una visione molto personale e, soprattutto, notevolmente diversa dall’heritge del marchio. La forza di Michele sta proprio nella possibilità di stravolgere la storia dopo averne fatto parte durante gli anni trascorsi nella stanza dei bottoni della maison accanto a Giannini. Stesso discorso per Chiuri che, forte dell’esperienza accumulata al fianco di Valentino Garavani, ha saputo iniziare un nuovo percorso stilistico insieme a Pierpaolo Piccioli, attuale direttore creativo del marchio romano, quando, nel 2008, il fondatore ha lasciato posto al loro intuito rivoluzionario. In otto anni, il duo ha attirato l’attenzione delle fashioniste di tutto il mondo grazie a borse e calzature diventate in poco tempo veri e propri must have. Una scommessa difficile da vincere per un marchio rinomato soprattutto per gli abiti da sera e la haute couture più che per gli accessori.
RILANCI ILLUSTRI
Per la gavetta, talvolta, può essere decisivo un luxury brand dal passato glorioso, ma che stenta a stare al passo coi tempi. È la strada comune a Riccardo Tisci e Nicolas Ghesquière, formatisi entrambi in età giovanissima in maison storiche che, al momento del loro arrivo, non erano certo sotto i riflettori. Il primo, dal 2005 al timone di Givenchy dopo una breve parentesi da Puma e Coccapani, è riuscito a rivitalizzare il brand grazie ad allure gotica, streetwear e una serie di fortunati accessori che hanno contribuito al ritorno in carreggiata del marchio che oramai i magazine di settore citano all’unisono ‘Givenchy by Riccardo Tisci’. Proprio quest’anno Tisci è stato inserito nella famosa lista “100 Most Influential People” redatta da Time. Una strategia analoga è stata adoperata da Nicolas Ghesquière, tra i pochi fashion designer francesi sopravvissuti all’avanzata dei creativi nostrani Oltralpe.
Dopo un paio di anni da Jean Paul Gaultier si è visto affidare dal Gruppo Jacques Bogart la collezione per un licenziatario giapponese. Colpiti dal talento dello stilista, nel 1997, Jacques Bogart, all’epoca proprietario di Balenciaga, decide di nominarlo direttore creativo a soli 25 anni. Parte così il rilancio di uno storico marchio arenato dagli anni 70 e tornato gradualmente a risplendere anche dopo l’acquisto da parte del Gruppo Kering. Dopo 15 anni di successi e riconoscimenti Ghesquière lascia Balenciaga nel 2012 e approda l’anno successivo da Louis Vuitton.
TIMING FORTUNATO
Non guasta essere nel posto giusto al monento giusto. Lo insegna Sarah Burton, assistente personale di Alexander McQueen dal 1997 e, in seguito alla tragica scomparsa del fashion designer, direttore creativo del marchio inglese del colosso Kering dal 2010. Burton testimonia quanto una lunga gavetta all’interno di un’azienda possa essere apprezzata nel momento del bisogno. Stessa sorte per Phoebe Philo, assistente di Stella McCartney da Chloé prima di ereditarne il ruolo di direttore creativo nel 2001 e, dal 2006, al comando di Cèline (Lvmh Group) con grande soddisfazione per tutte le amanti del minimal-chic che caratterizza le sue creazioni.
IL POKER DI BAILEY
Laurea alla Royal College of Art, qualche anno di pratica da Donna Karan prima di sbarcare da Gucci come senior designer delle collezioni femminili dal 1996 al 2001. Questo il curriculum di Christopher Bailey prima di diventare design director di Burberry nel 2001. Da qui l’inarrestabile avanzata interna al colosso inglese che prosegue con la nomina a creative director nel 2004 e culmina con quella a chief creative officer nel 2009. Bailey è addirittura riuscito a collezionare il titolo di CEO per il marchio inglese nel 2014, carica che lascerà nel 2017 dando comunque nuovo valore all’espressione “scalata aziendale”.
RITORNO ALL’ANIMALIER
Il norvegese Peter Dundas, giunto alla notorietà come direttore creativo dello storico marchio Emilio Pucci nel 2008, lascia la carica lo scorso anno per prendere le redini di Roberto Cavalli dopo l’addio del fondatore. Quest’ultimo passaggio, per lo stilista, rappresenta di un ritorno all’ovile, visto che proprio nell’ufficio stile Cavalli dal 2002 al 2005 aveva affinato il suo talento con le famose stampe animalier.
Tutto torna.
di Marco Caruccio