Il presidente di BasicNet racconta il percorso del gruppo. Che ha richiesto una rapida entrata sul listino, e ha resuscitato i marchi falliti Robe di Kappa e Superga. Oggi, dice, “ho ancora appetito”. Guarda ad altri brand? “A tutti”.
C’è un modo di dire in Italia per quando le cose non vanno bene: ‘andare a ramengo’. Ho scoperto che Ramengo è un paesino vicino a Torino, nei pressi di Cuneo, in cui sono nati i ferrovecchi: coloro che, in regione, andavano a raccattare quello che nessuno voleva più. E, poi, lo rivalorizzavano dandogli nuova vita. Noi, in BasicNet, facciamo la stessa cosa”. Inizia così, l’intervista a Marco Boglione avvenuta durante il ventesimo convegno Pambianco. Con la sua BasicNet, ha comprato e riportato alla luce diversi marchi storici. E “ha ancora appetito”.
Lei è un grande pescatore di marchi storici da riportare in vita. Ed è anche entrato presto in Borsa. Perché?
Ci siamo andati appena abbiamo potuto. Per noi la Borsa era la quarta gamba del tavolo che stavamo costruendo. I fondi di private equity li avevamo già avuti: siamo una piccola azienda che, all’inizio, era piccolissima e nei primi dieci anni abbiamo avuto bisogno di aiuti per crescere. I fondi funzionavano molto bene, ma avevamo tempi diversi: la mia volontà era quella di fare qualcosa che sapevo, se tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe richiesto vent’anni. I fondi non avevano quell’orizzonte temporale. Se fossimo andati avanti con la struttura finanziaria legata alla private equity, avremmo rischiato di pensarla in un modo diverso e ciò avrebbe condizionato il nostro progetto industriale. Appena abbiamo potuto siamo andati in Borsa. Io non ho venduto un’azione andando in Borsa, ma ho soddisfatto degli azionisti che mi avevano dato molto, e li ho sostituiti con azionisti diversi che possono entrare e uscire quando vogliono. Io e la mia famiglia abbiamo circa il 40 per cento.
Perché era finito male Robe di Kappa?
Basicnet compra marchi morti e li riporta alla luce: non abbiamo mai comprato nulla che non provenisse da un fallimento. Prendiamo marchi con una bella storia e li rivalorizziamo. Robe di Kappa aveva anticipato quello che poi si è verificato in molti altri casi in Italia, ossia essere un buon marchio con una cattiva azienda alle spalle. Era figlia del Maglificio Calzificio Torinese che, negli anni Sessanta, aveva capito il cambiamento culturale dell’epoca puntato sul casualwear: era passata dall’abbigliamento intimo a un mercato completamente nuovo. A causa della prematura scomparsa di Davide Vitale, genio che era alla sua guida, l’azienda è fallita. Ma era l’azienda a fallire, non il marchio. Abbiamo comprato una magnifica storia e, per riportarla alla luce, abbiamo costruito la Basicnet. I numeri mi hanno dato ragione piuttosto in fretta e abbiamo fatto subito un’azienda globale. Mi davano del pazzo ma, in un anno, abbiamo venduto in 64 mercati.
Perché, invece, il fallimento di Superga?
L’Italia ha dormito un po’ sugli allori e poi sono arrivate delle realtà che volevano occuparsene, tipicamente provenienti dal mondo della finanza. La Superga è stata condotta per un certo numero di anni da logiche finanziarie piuttosto che industriali o di prodotto. In alcuni casi, una strategia come questa si rivela mortifera, soprattutto quando un marchio vive di passioni e di emozioni. Ho scelto di andare in Borsa proprio per salutare i fondi.
Per il caso K-way, quanto ha contato che quasi contemporaneamente ci fosse il rilancio e il riposizionamento di Moncler?
Sicuramente ha contato, anche perché ci siamo inseriti nella fascia di mercato che aveva abbandonato. K-Way ha una vocazione fortissima allo sport e alla funzionalità, ed è difficile che poi diventi un marchio del lusso. È un marchio ben posizionato, perché comunque una giacca da 500 euro non è considerabile accessibile.
Ha ancora appetito di marchi?
Come BasicNet vorremmo tutti i marchi da gestire. Ma in garage, come si dice in gergo, abbiamo ancora marchi con una splendida storia da valorizzare. Per esempio, Jesus Jeans. Purtroppo non ho molta competenza per quanto riguarda il denim, per cui mi viene un po’ difficile attuare una strategia. A parte questo, non ho intenzione di fermarmi.
A quante persone date lavoro?
Diamo occupazione a 40 mila persone, di cui 500 sono a Torino e 2mila nella rete distributiva. Le altre sono persone che lavorano a tempo pieno durante l’anno per produrre 50 milioni di pezzi.
di Letizia Redaelli