L’ultima settimana delle sfilate milanesi ha confermato l’aria di entusiasmo che si era respirata nella seconda metà dello scorso anno, in seguito al rinnovo e al potenziamento della Camera Nazionale della Moda, oltre che a un ritrovato fronte comune tra gli stilisti italiani, e tra questi e le istituzioni. Si attendeva con grande curiosità l’esordio del nuovo amministratore delegato di CNMI Jane Reeve, che, con decisione e convinzione, è stata più che presente e più che ottimista. La strategia di fondo, ha ripetuto, è quella di “valorizzare le cose che il mondo ci invidia”, anche attraverso la “contaminazione”, ossia la capacità di creare un’alleanza comunicativa tra le varie anime del made in Italy: moda, design e food.
Tuttavia, una questione più concreta si pone sul tavolo oggi. Lo spunto lo fornisce un’analisi Pambianco pubblicata lo scorso numero e poi ripresa da altre testate: il 53% dei marchi che ha sfilato a Milano Moda Donna ha un fatturato inferiore ai 25 milioni di euro e appena nove marchi su 58 superano i 500 milioni di euro di fatturato.
Ecco che allora si capisce come non sia più sufficiente provare a blindare il calendario collocando in apertura e chiusura i big del settore. A farne le spese, quest’anno, è stato il generoso Giorgio Armani (generoso perché ha sempre accettato, per il bene della settimana milanese, di collocare la propria sfilata a fine calendario). Re Giorgio, legittimamente, ha esternato il proprio disappunto nel vedere vuoti alcuni posti della sfilata riservati a giornalisti internazionali. Questi stessi giornalisti avevano nel frattempo prenotato altri posti: quelli del viaggio per Parigi.
Il problema, infatti, non è tanto di calendario, ma è più strutturale. In un mercato globale sempre più dominato dai colossi, quanta attenzione può dedicare – per fare un esempio – un giornalista americano a un marchio che negli Usa vende un milione di euro? C’entra poco la simpatia, l’invidia e anche la qualità.
Per risolvere questo problema, non si può certo attendere che le aziende italiane crescano e si trasformino in tante piccole Lvmh. Se le dimensioni delle aziende italiane della moda non sono sufficienti, forse si devono percorrere strade nuove: sicuramente attrarre anche brand internazionali, ma anche aggiungere alla moda altri elementi di appeal, quali il design, appunto, e il food.
Si parla da mesi di una nuova identità di Milano che sappia combinare le sue anime e sia capace di trasmetterne i valori aggregati. Questi valori, sì, potrebbero gareggiare per dimensione e leadership globale. Trovare questa identità, anche in vista dell’Expo, significa trovare la formula che renda Milano una nuova e vera capitale internazionale.
David Pambianco