Il Salone del Mobile ha segnato un altro momento di grande successo mediatico. Le cifre sono, come al solito, impressionanti. A Milano, nella settimana dell’evento, sono arrivate oltre 300mila persone per osservare e toccare con mano le novità del design e dell’arredo. In questa armata di visitatori, cresce in modo esponenziale la presenza estera che si caratterizza, si organizza e si rafforza anche all’interno delle mura del Salone, con roccaforti espositive sempre più connotate. Su tutte, per i progressi compiuti, le aziende di Svezia, Brasile e Cina. Può essere interessante fare un parallelo con i fasti della Milano della moda degli anni Novanta. Anche allora ci si apriva fiduciosi e si conquistava il mondo. Anche allora si riteneva che nessuno potesse imitare la formula milanese di evento. Viceversa, quella formula è stata copiata. Le capitali della moda si sono moltiplicate e si moltiplicheranno ancora. La moda milanese è rimasta ferma a quel modello per un tempo infinito, e ci ha messo almeno un decennio prima di prendere coscienza della necessità di quella svolta che sembra essere arrivata con l’ultima assemblea (vedi articolo all’interno). Il Salone del Mobile, insomma, corre il rischio di rappresentare un ologramma ingannatore. Permette di crogiolarsi su un’immagine di superiorità apparentemente invincibile. Mentre, viceversa, la rappresentazione non corrisponde più allo stato di salute reale di quell’industria che ci sta dietro. L’arredo nazionale appare variegato nelle strategie, con brand di livello internazionale, catene che brillano e consolidano (spesso con posizionamento low cost), ma anche moltissime piccole realtà, le quali si trovano in forte difficoltà. In generale, il comparto paga un nanismo – aspetto cronico del made in Italy – che sta ancorando il destino delle aziende all’infelice destino dell’economia italiana. I riflessi di questo ancoraggio sono evidenti. Confrontando il design con la moda, il mondo dell’arredo non solo ha esportato un terzo dei cugini (8,5 contro 29 miliardi), ma la quota export sul totale fatturato si ferma al 53% contro il 67 per cento. Soprattutto, ha esportato a raggio più limitato, concentrandosi in Europa e restando a distanze siderali da mercati quali il Giappone, Hong Kong e Cina. L’arredo, è vero, a differenza della moda, sconta la differenza di barriere logistiche che può passare tra movimentare una borsetta e una cucina. Perciò, negli appelli moltiplicatisi in questi giorni sulla necessità di esportare – concetto che è oramai una scontata necessità da un decennio – è utile riflettere su queste barriere. Non è tanto l’export la chiave per un settore che cerca di innovare. La chiave deve essere il “come”.
David Pambianco