Rientrare in Italia dopo un'esperienza poco esaltante in Cina, non è una sconfitta imprenditoriale. Non per chi, come Giannino Beschin, titolare di una conceria storica tra le più avanzate in Europa per tecnologia e adeguamento ai parametri ecologici di impatto ambientale, ha cercato di districarsi tra norme e dazi, per poi capitolare.
L'impresa, fondata dal padre Gino nel '46 nel cuore del distretto di Arzignano, fa da anni concia al cromo destinata alla produzione di calzature, pelletteria e, in minima parte, salotti. Una realtà che vende il proprio prodotto a marchi di caratura internazionale e al circuito della grossa distribuzione, ma con un fatturato di 20 milioni di euro che, in Cina, la rende minuscola.
«Soli» è la parola più frequentemente usata da Beschin riferendosi allo status della piccola media azienda competitiva ma bisognosa dell'aiuto di esperti, per uscire dalle pastoie burocratiche e dai «tranelli» cinesi di normative mutanti a seconda delle province. «Forse con un adeguato supporto istituzionale ce l'avremmo fatta» spiega l'imprenditore. Già, perché i cinesi, nel '94, avevano selezionato l'azienda per partecipare a un progetto di conceria pilota nella Repubblica Popolare, finanziato dallo Stato. «Un accordo di collaborazione in cui ci siamo trovati coinvolti: abbiamo fornito know how, macchinari, praticamente la conceria chiavi in mano, in cambio di una cospicua partecipazione nella società».
Di lì, i primi intoppi: i processi decisionali dell'azienda pubblica cinese si rivelano lunghi, la struttura «ingessata», cosa che induce Beschin a uscire nel '97, vendendo la sua partecipazione. In Cina però, l'imprenditore rimane, non per ragioni di costo quanto di vicinanza alla clientela: «nelle concerie si fa poco uso di manodopera e molto di tecnologia, quindi il gap di prezzo rispetto alle aziende cinesi non è alto. Piuttosto, siamo rimasti per affiancare i nostri clienti che delocalizzavano e offrire tempi di consegna rapidi».
Sulla carta, tutto semplice, secondo il meccanismo che in Cina viene definito di «temporanea importazione»: l'azienda importa, in questo caso le pelli, le lavora, le consegna a Hong Kong dove i clienti, ovvero calzaturifici e mobilieri, ritirano il prodotto per poi tradurlo in oggetto finito e esportarlo. Inizialmente, senza imposizione di dazi né di Iva, cosa che è cambiata nel giro di poco tempo. «Prima i cinesi ci hanno consentito di consegnare direttamente ai clienti con i cosiddetti libretti doganali; poi è iniziato uno stillicidio di difficoltà, legato alla mancanza di strutture in grado di aiutarci sul fronte legale e burocratico, è il j'accuse di Beschin. Ci trovavamo merce bloccata, pagamenti bloccati per cavilli normativi. In compenso, se avessimo voluto lavorare la pelle in Italia e importarla, avremmo dovuto pagare dazi del 9%».
Per la Beschin, il danno è stato momentaneo: l'azienda vive di prodotti innovativi, come le pelli idrorepellenti e ignifughe, ha clienti prestigiosi. «Molti stanno rientrando dalla Cina, perciò il problema dei tempi di consegna più lunghi non essendo in loco non si pone più. Inoltre continuiamo a fornire aziende locali grazie alla fiducia costruita nel corso degli anni e ai migliorati trasporti via mare».
Risultato: in discussione non è il prodotto italiano («imbattibile per qualità e valore aggiunto ma non promosso né difeso da chi ci governa»), bensì l'inerzia istituzionale e il guazzabuglio normativo («un sistema di leggi è stato introdotto solo negli anni '90 ma le norme si susseguono di continuo, il diritto internazionale è carta straccia e non esiste contratto che si rispetti»).
Estratto da CorrierEconomia del 15/10/07 a cura di Pambianconews