La storia è bella. È rosa perché ha a che fare con la moda. Gialla perché è un thriller. Nera, anzi noir, perché c'è gente che scompare. Comincia nel 2004. C'è questa giovane donna, Frida Giannini, che, quando Tom Ford lascia Gucci, prende insieme ad altre due persone l'eredità più pesante degli ultimi anni: quella di dare a Gucci lo stesso glamour del bel Tom. Lei per gli accessori, Alessandra Facchinetti per la moda donna, John Ray per la moda uomo. Due stagioni dopo, Facchinetti salta e Frida aggiunge la donna al suo carnet. Tre stagioni dopo, salta anche John Ray. Bingo. Dalla prossima, Superfrida disegnerà anche l'uomo. A 33 anni, è il direttore creativo della doppia G. E una delle donne più potenti del fashion internazionale.
Non erano bravi loro o era troppo brava lei?
«Erano bravi. È semplicemente stata una decisione dell'azienda. Probabilmente dovuta ai risultati ottenuti. Io non mi sento di giudicare né il loro lavoro né chi mi ha messo in questa posizione. Le cose sono andate così e io mi chiedo spesso, perché non è successo il contrario? Poteva benissimo essere uno di loro due a prendere il mio posto. Fa parte del gioco. È la meritocrazia, sei su un cavallo e ci devi restare, anche se sgroppa. Lo devi tenere con le redini, se non riesci a tenerlo vai giù. Io oggi sono qui, domani chissà. In certi lavori non hai sicurezza, sei sempre sui carboni ardenti. Bisogna saperlo e non farsi prendere dal panico».
Le piace il potere?
«Bisogna imparare a conviverci. C'è il momento dello scherzo e quello della serietà, quando bisogna essere un pochino duri con i collaboratori. È la cosa più faticosa, per me, prendere in mano il frustino. Ma mi ci dovrò abituare. Ci sto lavorando».
E lei, la responsabilità del fatturato pazzesco che ha fatto fare alla Gucci con gli accessori, l'80 per cento del totale…
«L'85».
… come la porta?
«Non ci penso molto. Certo, non è un gioco, ci sono io, le mie idee, il mio team: però bisogna anche confrontarsi con la realtà, col fatto che i prodotti funzionino o meno. Un'azienda globale come Gucci ha all'interno prodotti che devono accontentare tutto il mondo, dalla fascia di prezzo d'entrata alla borsa di coccodrillo da 30 mila dollari. Non sono lasciata a briglia sciolta. Creatività totale sì, ma ho dovuto imparare a lavorare con le analisi di mercato. Faccio un esempio pratico: se a me piacciono gli occhiali a fascia ma per i cinesi va bene solo la fascia piatta, io devo farli a fascia piatta per i cinesi. È lo stesso per le scarpe: devo pensare ad accontentare la calzata giapponese e quella americana».
Logica globale. Però con grande attenzione a non perdere l'identità italiana. Qui molti dislocano e vanno a produrre dove costa meno, voi restate in Italia.
«Se Gucci dovesse andare a produrre in Cina o in Thailandia rischierebbe di perdere la sua anima di brand del lusso, diventerebbe mass market. La tradizione è fondamentale. Gli stranieri impazziscono per la nostra tradizione, per la manifattura italiana, per l'artigianalità. Il nostro appeal è anche fatto della nostra storia, del legame con il passato. Del fatto che abbiamo città come Roma e Firenze. A volte ho l'impressione che il made in Italy stia più a cuore a loro che a noi italiani».
I talenti sono incoraggiati in Italia?
«Noi italiani siamo strani. I francesi, anche se nasce uno che inventa il calzino bucato, lo osannano come il nuovo re della moda. A qualsiasi giovane nuovo designer, a qualsiasi nuova leva, viene dato un supporto e uno spazio incredibile di espressione. In Italia restiamo sempre abbarbicati a quei tre-quattro nomi. Un po' di supporto alle nuove generazioni servirebbe. Ogni volta che un giovane, tipo me, tenta di percorrere una nuova strada, se gli si può dare una mazzata non gliela risparmia nessuno. Si parla tanto di creatività, dell'Italia che deve produrre novità, e poi ogni volta che qualcuno ci prova si torna ad Armani, Valentino e Ferrè».
Da chi dipende?
«C'è un insieme di cose. L'industria,le lobby anche giornalistiche. Faccio un esempio, una persona che mi è anche molto simpatica: Riccardo Tisci. Mio coetaneo. In Italia faceva il Marchese Coccapani, a Parigi gli fanno fare Givenchy. Adesso è il genio della moda. Perché lì sei italiano quindi apprezzato, ma il marchio è francese e dunque ti lascia esprimere. Sei supportato. Da tutti».
Estratto da L'Espresso del 10/03/06 a cura di Pambianconews