Dopo aver fatto innamorare con il suo Yves Saint Laurent parigini e americani, che è un po' come metter d'accordo foie gras e hot dog, Stefano Pilati, milanese di Porta Venezia, classe '65, si dispiace, elegantemente com'è nel suo stile, che gli italiani non capiscano. Gli sono arrivati, a Parigi, gli echi di sdegni e offese dopo l'uscita della classifica dei migliori di Vogue America. Anche perché lui è uno dei «magnifici sette» con Miuccia Prada, Marc Jacobs, Narciso Rodriguez, Nicolas Ghesquière, Olivier Theyskens, Alber Elbaz.
La moda italiana è finita?
«Macché! Tutti noi, Marc, Narciso e Alber sappiamo cosa hanno rappresentato e cosa rappresentano: Armani, Versace, Ferrè, la stessa Krizia, ne parliamo spesso».
Elbaz (Krizia), Jacobs (Gerani), Narciso (Cerruti) e lei (Prada), tutti ingaggiati in Italia e poi fuggiti, perché?
«Io semplicemente per l'opportunità. Mi hanno chiesto di disegnare Yves Saint Laurent, mica Kookai! E comunque non rinnego le mie origini e anche qui porto avanti un discorso “italiano”: non c'è ricamo o stoffa o tecnologia che io non ricerchi e non faccia, caparbiamente, in Italia».
Lei parla di limiti del made in Italy.
«Mi riferisco solo a un certo provincialismo, quello che porta sempre gli uni a guardare l'orticello degli altri. Bisogna essere più leggeri, aperti. Difendere le proprie identità, rispettando quelle degli altri. Penso anche al caso Anna Wintour (la direttrice di Vogue Usa, ndr) e al calendario delle sfilate milanesi “contratto” perché lei lo avrebbe chiesto per “risparmiare” sulla trasferta. Abbiamo problemi di budget noi, perché non dovrebbe averne lei? E' stata onesta, ora basta organizzarsi. Perché anche a Parigi tira la stessa aria, cosa credono?».
Estratto da Corriere della Sera del 14/10/05 a cura di Pambianconews