Bulgari produce in Italia: dai gioielli all'assemblaggio del nostro profumo. Sia perché siamo bravi, e quindi riusciamo a essere molto efficienti, sia per il tipo di produzione, su di noi le diseconomie del sistema Italia pesano meno: penso al costo dell'elettricità e ai trasporti. Ma un paese non può pensare di fare solo pelletteria e gioielli… Francesco Trapani è un capo azienda di quella generazione di mezzo (ha meno di 50 anni) che ragiona con una visione globale, ma con i piedi ben saldi nel nostro paese, sul cui futuro non nasconde preoccupazione.
«Intendiamoci, l'immagine del “made in Italy” è ancora forte e noi ne beneficiamo», ragiona Trapani: «ma mi chiedo: per quanto le aziende del lusso produrranno ancora in Italia? Già oggi lo fanno in parte sì, in parte no. Molti delocalizzano, e il cliente neanche se ne accorge: d'altra parte fare scarpe in Cina identiche a quelle fatte qui è possibile ed ha dei costi infinitamente più bassi. Io potrei già produrre orologi in Cina, ma i miei clienti vogliono che sia “made in Swiss” perché è sinonimo di qualità. Sono sicuro che presto questa mentalità cambierà. Basta vedere come è cambiata la coreana Samsung: dieci anni fa faceva grandi volumi di prodotti di qualità bassa e basso prezzo. Ora fanno prodotti di altissima qualità molto costosi. E vanno alla grande. Quindi io vedo il “made in Italy” a rischio. :don la concezione, mala produzione certamente».
Se la nostra industria tradizionale è destinata a chiudere, qual è la via d'uscita?
«Cambiare modello di sviluppo. La risposta è nell'alta tecnologia, nella ricerca… Dovremmo per esempio puntare ad avere una struttura fiscale per attirare le sedi centrali delle grandi aziende. Dall'altro lato, focalizzare sulle produzioni in cui ci vuole cervello più che manodopera. Certo, le infrastrutture sono fondamentali: a cominciare da una giustizia con tempi certi. Ma per fare tutto questo ci vorrebbe una classe dirigente che non c'è».
Lei è pessimista sull'Italia, ma i suoi conti vanno bene. Il titolo festeggia i 10 anni in Borsa ai massimi, sui 9,6 euro, e alcuni report di banche d'affari lo vedono ancora in crescita: Deutsche Bank a 11,5, Unicredit 10,70. Claire Kent di Morgan Stanley, invece, prevedeva a metà maggio un “underperform”con target price a 9 euro. Lei si sente fuori dal guado del dopo 11 settembre?
«Abbiamo chiuso il 2004 con un fatturato cresciuto rispetto al 2001 del 35 per cento, e i profitti del 60. Abbiamo azzerato i debiti, e pagato un dividendo doppio di quello del 2003. E la prima parte dell'anno sta andando secondo i piani, con una crescita oltre il 10 per cento».
Con tutti questi soldi, niente acquisizioni?
«Ci sono delle cose inacquisibili, perché se venissero sul mercato, verrebbero accaparrate dai big a prezzi impossibili. Ma per ora noi riusciamo a crescere anche senza».
Estratto da L'Espresso del 15/07/05 a cura di Pambianconews