Competere con prodotti semplici, senza neanche avere alle spalle una medio-grande azienda con brand affermato, richiede alle aziende una continua rincorsa verso la riduzione dei costi di produzione. Per ridurre lo svantaggio qualcuno sta cercando di portare all'estero alcune fasi di lavorazione, tipicamente quelle a minore valore aggiunto e più facilmente standardizzabili.
«Ma gli effetti della delocalizzazione possono anche essere negativi sui distretti: quando si spostano all'estero fasi della filiera produttiva si può rompere il delicato equilibrio che lega tra loro le diverse aziende all'interno di un territorio, spiega Riccardo Varaldo, presidente della Scuola Superiore Sant'Anna, che da molti anni studia questo specifico modello industriale. Essendo la filiera di un distretto quasi sempre molto frammentata, in fasi e sottofasi (ognuna delle quali legata ad una singola azienda), è evidente che se viene a mancare un anello tutta la catena può subire forti scompensi».
Un ulteriore motivo che indebolisce le reti d'impresa è il fatto che il legame tra i diversi attori sia quasi sempre basato su relazioni del tutto informali, spesso di tipo interpersonale, piuttosto che su sistemi informativi strutturati. Quando si cerca di organizzare le reti, ci si scontra spesso contro una scarsa disponibilità degli imprenditori a mettere in atto investimenti nelle lct.
Quindi, le maggiori opportunità di sviluppo sono fuori dall'Italia? «Penso di sì, ma a condizione che non si parli di semplice export o di delocalizzazione, ma semmai di “ri-localizzazione”: ossia della creazione di veri e propri “pezzi” della filiera distrettuale all'estero, che consentano di valorizzare sia le competenze locali, sia quelle (più pregiate) che rimangono in Italia, puntualizza Gaetano Fausto Esposito, direttore generale di Assocamerestero, il tutto è possibile se si attiva una media impresa che fa da traino alle altre, come sta già succedendo in diversi casi».
Estratto da Affari&Finanza del 6/06/05 a cura di Pambianconews