Brand e investitori guardano alla ripresa del mercato americano, mentre in Asia nascono nuovi colossi con cui i gruppi occidentali devono misurarsi. Adidas alza le stime, ma, spiega Bernstein, sconta la fase di turnaround.
“Tra i principali fattori di incertezza per i brand dello sportswear e dell’athleisure quest’anno ce ne sono due di livello macro: la situazione dei consumi in Nord America e i dati sulla disoccupazione in Cina, con relativo impatto sul potere d’acquisto. Le altre sfide, più strutturali, ricorrono ogni anno: dalla gestione dei livelli di inventario all’evoluzione del panorama competitivo”. A fare queste valutazioni è Aneesha Sherman, Senior Analyst, Apparel & Specialty Retail di Bernstein, che inquadra un settore dominato da top seller costantemente chiamati a rinnovarsi per incrementare, o mantenere, la loro market share. Nel 2022 Statista incoronava Nike, Adidas, Puma, Lululemon Athletica e Under Armour come le più grandi aziende di abbigliamento, footwear e accessori sportivi per fatturato, ribadendo ancora una volta la leadership del gigante dello swoosh, il cui giro d’affari è circa il doppio di quello della rivale Adidas. Il mercato globale dell’apparel sportivo, stima McKinsey, dovrebbe crescere dell’8-10% all’anno fino al 2025, passando dai 295 miliardi di euro del 2021 a 395 miliardi.
INCOGNITA AMERICANA
Attualmente, le aree di riferimento per il comparto sono il Nord America, che da solo vale il 40% delle entrate, l’Europa e la Cina, ciascuna con un’incidenza del 15-17 per cento. L’andamento di questi mercati è dunque un dato cruciale per l’outlook dei grandi brand. Negli Stati Uniti la paura per l’arrivo di una recessione nel 2023 è significativamente diminuita (nel Q2 l’economia americana è cresciuta del 2,4%), tuttavia l’orizzonte economico che attende il Paese non è dei migliori, visti i timori legati a inflazione, aumento dei tassi di interesse e calo dei consumi. La debolezza del mercato a stelle e strisce ha rallentato il full year 2023 di Nike, ma anche le semestrali di Adidas e Puma. “Attualmente non vediamo segni di miglioramento negli Stati Uniti”, ha ammesso Arne Freundt, CEO di Puma, commentando i dati della prima metà dell’anno. A ciò si aggiunge una ripresa più lenta del previsto in Cina, dove i big dello sport oggi affrontano la concorrenza dei player locali. Negli ultimi anni, i marchi Fila, Kolon Sport, Descente e il gruppo Amer Sports (controllante di Salomon, Wilson, Atomic, Arc’teryx e Peak Performance) sono passati sotto il controllo del gruppo di Xiamen Anta Sports. Il brand Anta e il competitor Li Ning, specialista delle scarpe sportive, godono di grande popolarità nell’Ex Celeste Impero e costituiscono realtà con cui i brand occidentali devono misurarsi.
NIKE VS ADIDAS
Nei 12 mesi al 31 maggio scorso, le vendite di Nike hanno toccato quota 51,2 miliardi di dollari (47,3 miliardi di euro), a +10 per cento. I profitti risultano in calo del 16% a 5,1 miliardi. Le giacenze erano invece “flat”, con un valore di circa 8,5 miliardi di dollari. Negli scorsi mesi il rinnovo delle partnership di Nike con Macy’s e Foot Locker ha fatto pensare a un ‘dietrofront’ del gruppo guidato da John Donahoe rispetto allo snellimento del canale wholesale. “In realtà – ha spiegato Sherman – Nike non è tornata indietro: l’incidenza del wholesale sul totale delle vendite continua a diminuire, mentre cresce il direct-to-consumer (dtc). Quest’anno però il cambiamento è stato più lento del previsto ed è possibile che l’incidenza del dtc non raggiunga il 60% nel 2025, come stimato in precedenza. Questo dipende dal fatto che la svolta dtc guarda soprattutto allo sviluppo dell’e-commerce, ma quest’anno abbiamo visto crescere l’offline più velocemente dell’online. Nike deve quindi assicurarsi una presenza sufficiente tra i partner wholesale per partecipare adeguatamente al canale fisico. Man mano che l’e-commerce avanzerà, aumenterà anche la percentuale dtc nel mix delle vendite”. Nike, precisa l’analista, mantiene una posizione di forza rispetto alla rivale Adidas, che oggi vive una fase di turnaround. Le vendite di Adidas dovrebbero diminuire a un tasso mid-single-digit nell’intero 2023, contro la flessione high-single-digit prevista in precedenza. A spiegarlo, a margine della diffusione dei dati semestrali, è stato lo stesso gruppo tedesco, confermando che “la forte domanda per le restanti scorte di scarpe Yeezy ha contribuito a ridurre una perdita prevista per l’intero anno”. Nei sei mesi i ricavi di Adidas si attestano a 10,6 miliardi di euro (-3 per cento). Nel solo Q2 i ricavi hanno subito una flessione del 5% a 5,3 miliardi di euro. “Siamo contenti di come si è sviluppato il secondo trimestre – ha commentato il CEO Bjørn Gulden –. Anche se abbiamo ancora troppo inventario lento sul mercato, il sell-through è migliorato”. Il fattore determinante del successo di Adidas – ha aggiunto Sherman – “sarà la rapidità con cui saprà guadagnare quote di mercato nel 2024, il che dipende dalla capacità di creare attesa e arrivare sul mercato in modo più controllato ed efficace. Se questo accadrà, spingerà in positivo la leva operativa e i margini, migliorerà la fiducia tra i retailer e tra gli investitori, generando multipli più alti per il titolo”.
Ad aumentare la desiderabilità dei brand sportivi sono, da sempre, anche le collaborazioni creative: queste ultime, precisa Bernstein, sono più importanti per creare desiderabilità che per trainare i ricavi. Duetti ‘di lusso’ come quelli tra Dior e Nike o tra Gucci e Adidas, ad esempio, “rappresentano – ha concluso Aneesha Sherman – una percentuale molto piccola delle vendite totali, ma il loro contributo nell’elevazione del brand e sulla creazione di un halo effect alimenta l’interesse per tutta l’offerta. Alcune partnership hanno avuto un impatto più duraturo, si pensi al mondo Jordan per Nike o al contributo di Yeezy per Adidas, ma la gran parte di questi sodalizi serve più a creare hype che come motore di entrate”.