È tra gli argomenti più chiacchierati e più discussi del settore moda. Si tratta del reshoring (o nearshoring), ossia il rientro delle produzioni nei paesi d’origine o in geografie a corto raggio. Sebbene sia un tema caldo da almeno un lustro, di rilocalizzazione si torna a parlare in questi mesi, in concomitanza con le difficoltà di approvvigionamento che tutti i settori stanno vivendo da almeno 24 mesi. Se in alcuni casi, automotive e tecnologia in primis, la situazione è fortemente critica, per il tessile non esiste un’emergenza, quanto l’esigenza di garantire servizi e informazioni all’altezza con il proprio storytelling.
“Il reshoring è un tema di cui parliamo almeno dal 2016 ed è poi del 2018 la prima analisi a tema sviluppata in collaborazione con Pwc”, ha spiegato a Pambianco Magazine Gianfranco Di Natale, direttore generale Sistema Moda Italia (Smi), “va evidenziato poi, che rispetto ad altri settori industriali, il tessile moda ha delocalizzato meno, preferendo fare trading all’estero più che trasferire attività industriali. Non solo, i paesi dove, eventualmente, si è spostata la produzione sono prevalentemente quelli dell’Est Europa e dell’area del Maghreb e dell’Egitto. Da qui, il rientro delle produzioni è stato strettamente legato all’aumento del costo del lavoro in loco, che ha reso meno conveniente per le società produrre fuori dai confini propri”. Oggi, spiega Di Natale “a causa degli evidenti problemi logistici e organizzativi, basti pensare all’aumento esorbitante del prezzo dei container e all’allungamento dei tempi di consegna, si assiste a un incremento dei processi di ritorno, di cui, tuttavia, non abbiamo ancora dati e quindi non possiamo parlare di statistiche”. Ciononostante, a spingere le realtà del tessile abbigliamento verso soluzioni a chilometro zero non è tanto un problema di costi, o quanto meno questo non rappresenterebbe la motivazione principale, quanto un’opportunità per consolidare la propria reputazione anche in campo ambientale.
La scelta del reshoring va letta non solo in un’ottica difficoltà in termini logistici ma anche di gestione degli eccessi di produzione. “I bacini di fornitura lontani dai mercati di riferimento comportano pesanti processi di previsione della domanda, che inevitabilmente portano a sovrapproduzioni e a una risposta alle vendite che risulta lunga e poco efficace”, spiega Marco Zeggio, COO Benetton e CEO di Olimpias. “Queste ragioni – aggiunge Zeggio – unite ad una storia che vede Benetton presente nel bacino del Mediterraneo con le piattaforme produttive di proprietà, hanno dato forza alla nostra scelta e contribuito al processo di avvicinamento. Un’iniziativa che ha fatto registrare benefici in termini di velocità di risposta e contenimento delle sovrapproduzioni”. Di fronte ad una scelta di questo tipo sono diversi i risvolti positivi in un momento cruciale come quello attuale. “Ne hanno giovato anche in maniera molto significativa i costi di trasporto e, considerando l’effetto di dazi e cambi, i costi di produzione sono risultati in linea con quanto visto accadere nei bacini a lunga distanza”, spiega il COO di Benetton e CEO di Olimpias, aggiungendo che: “Al di là degli aspetti economici, c’è però un altro tema, che consideriamo estremamente rilevante: la sovrapproduzione è uno spreco da un punto di vista fortemente ambientale. Produrre meglio per soddisfare la domanda del mercato, senza sperperare risorse e materie prime, sta alla base del nostro modello”.
“La decisione di riportare in Italia alcuni processi di produzione risale al 2015 e nasce dalla volontà di investire sul valore dell’italianità e sui distretti d’eccellenza che, altrimenti, sarebbero scomparsi come quello della produzione di referenze sportive”, evidenzia Enrico Moretti Polegato, presidente di Diadora, “Questa scelta ha avuto diversi effetti positivi e non solo in azienda. Da un lato, abbiamo accorciato la supply chain e migliorato l’efficienza e l’interscambio tra le diverse funzioni aziendali: la strettissima collaborazione tra produzione e centro ricerca & sviluppo ha reso l’efficienza e la velocità di aggiornamento di alcuni progetti, incredibilmente rapida e fruttuosa. Dall’altro, il pubblico ha riconosciuto il nostro impegno nel voler avvicinare i processi produttivi, alcuni rimangono all’estero ma comunque nel perimetro europeo”.
“È una questione di responsabilità” sottolinea Matteo Anchisi, CEO di Dondup, “e produrre interamente Made in Italy è stato il primo step del mio mandato, iniziato tre anni fa”. Nel caso di Dondup la produzione è concentrata nei distretti marchigiani cui si aggiungono alcune produzioni d’eccellenza disseminate sul territorio. “Avere una filiera più corta significa dare coerenza al progetto, garantendo qualità e tempistiche di consegna efficaci”, aggiunge Anchisi. “La marginalità? Non è cambiata ma con l’allargamento a nuovi mercati, abbiamo incrementato i volumi: oggi produciamo oltre 800 mila pezzi all’anno e chiudiamo l’esercizio con un ebitda del 28 per cento. Questo dato ci conferma come la scelta di realizzare in Italia sia stata vincente così come lo è stata quella di impegnarci in un percorso volto alla sostenibilità con rigore e serietà, tanto che quest’anno siamo in grado di presentare il nostro primo bilancio di sostenibilità”.
di Barbara Rodeschini