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Materiali next-gen, mercato da oltre 2,2 mld $ nel 2026. È sfida alle produzioni tradizionali?

PH: Unsplash

Materiali next-gen, mercato da oltre 2,2 mld $ nel 2026. È sfida alle produzioni tradizionali?

Di Giulia Sciola
29 Aprile 2022

Si chiamano materiali next-gen e, dal 2015, hanno attirato investimenti globali per 2,3 miliardi di dollari (circa 2,1 miliardi di euro). A rendere note queste stime è l’organizzazione no profit Material Innovation Initiative, che nella definizione di materiali next-gen include pelle vegana o di origine vegetale e tutte le alternative non plastiche a poliestere e viscosa. Nel 2021 sono stati investiti circa 980 milioni di dollari nello sviluppo di fibre di nuova generazione, il doppio di quanto raccolto nel 2020. A crederci sono stati 187 investitori e 95 aziende. Sempre Material Innovation Initiative prevede che entro il 2026 questo mercato possa raggiungere un fatturato di almeno 2,2 miliardi di dollari. Delle 95 società citate 49 usano materiali provenienti da cellule animali modificate in laboratorio o da piante, microbi e dal micelio, contenuto nelle radici dei funghi.

La ricerca di soluzioni animal-free ha già raccolto adesioni nel mondo della moda, i cui annunci si muovono su fronti diversi. Tra quanti scelgono il micelio per dare vita ad un’alternativa alla pelle ci sono Adidas, Stella McCartney, Lululemon, diversi brand del gruppo Kering ed Hermès. Quest’ultima, che vede i leather goods come segmento trainante delle sue performance, ha presentato una versione della sua borsa Victoria realizzata in Sylvania, un nuovo materiale derivato dai funghi grazie al processo Fine Mycelium, brevettato da MycoWorks.

Lo scorso giugno, invece, Gucci ha annunciato di aver sviluppato un materiale considerato dalla maison “rivoluzionario”, risultato di due anni di lavoro che, cita la nota del gruppo, “combina alta qualità e scalabilità, unitamente a un ethos sostenibile”. Il materiale si chiama Demetra ed è stato creato utilizzando le stesse competenze e processi impiegati per la concia, ma la sua composizione è quasi esclusivamente vegetale. Tra gli elementi che lo compongono c’è la viscosa e la cellulosa provenienti da foreste gestite in modo sostenibile e il poliuretano bio-based, anch’esso proveniente da fonti rinnovabili. Gli scarti di Demetra ottenuti durante la produzione saranno riciclati e riutilizzati da Gucci nell’ottica di una maggiore circolarità.

Il fondo americano Carlyle, invece, ha puntato sulla start-up Spiber, società giapponese specializzata nella produzione e nello sviluppo di biomateriali tessili, guidando un round di investimenti. Il materiale più innovativo brevettato da Spiber si chiama Brewed Protein ed è una soluzione proteica sintetica a base biologica, biodegradabile e animal free. È stata pensata per rappresentare un sostituto di cashmere, lana, pelliccia, pelle, seta e altri materiali di origine animale con importanti benefici per la salvaguardia dell’ecosistema.

Nell’ambito della moda sostenibile, quella della pelle sintetica sembra una delle strade più battute dalle griffe. Molte maison hanno poi deciso di rinunciare all’impiego di pellicce e pelli di animali esotici (coccodrillo, serpente, razza, …): gli annunci più recenti, a inizio 2022, sono stati quelli di Dolce & Gabbana e Moncler, ma tra gli ambassador del no-fur si trovano già, tra gli altri, Chanel, Burberry, Prada, Valentino e Armani. Tra le aziende del fast fashion, invece, risultano fur-free Zara, Mango, H&M e l’italiana Ovs.

I materiali di origine green rappresentano dunque un ambito di ricerca cruciale per il mondo del lusso e un affare per aziende e startup che sviluppino prototipi di qualità da offrire al mondo della moda, del design e dell’automotive.

In un confronto con le produzioni tradizionali, una domanda sorge tuttavia spontanea: i materiali next-gen possono rubare quote di mercato all’industria conciaria italiana? “È un’affermazione che non mi trova del tutto d’accordo – ha commentato Fulvia Bacchi, direttore generale di Unic -. Vero è che certi brand sperimentano nuovi materiali, ma si tratta appunto di sperimentazioni. Per cui non vedo all’orizzonte grossi rischi per il materiale ‘pelle’. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla ‘nascita’ di una gran varietà di nuovi materiali, prodotti in particolare da biomasse vegetali, spesso con una prevalenza di componenti sintetiche”.

“L’attuale dinamica concorrenziale nei confronti della pelle – ha aggiunto Bacchi -, che si avvale spesso di una terminologia fuorviante, che utilizza impropriamente la parola ‘pelle’, si basa sull’assoluta mancanza di trasparenza sulle caratteristiche tecniche peculiari e di argomentazioni scientificamente supportate”. Unic ha ricordato come l’impegno per ridurre l’impronta complessiva della produzione conciaria sia una sfida affrontata non solo dalle singole realtà aziendali, ma sinergicamente da tutto il sistema produttivo. In questo contesto, le simbiosi industriali sviluppatesi negli anni sono fondamentali, soprattutto per il recupero e la valorizzazione degli scarti e il trattamento dei reflui. “La pelle è utilizzata in diversi segmenti di mercato ed ha caratteristiche uniche e, tra queste, cito la naturalità e la durabilità – ha concluso Bacchi -. Sono convinta che il mondo fashion degli accessori della fascia alta e medio alta del mercato non potrà mai rinunciare alla pelle”.

Quanto invece alle attività manifatturiere che producono e lavorano fibre tessili, le aziende italiane stanno già investendo nelle fibre biobased, mentre, per l’approvvigionamento di fibre naturali si cerca di dipendere sempre meno dai Paesi Extra-Ue. “Il tessile – ha spiegato Mauro Sampellegrini, responsabile ricerca e innovazione di Sistema Moda Italia – distingue tra fibre biobased, quindi prodotte a partire da biomasse come scarti agricoli o agoalimentari, e fibre di base organica, naturalmente biodegradabili. In questi due comparti è già insito il discorso di minor ricorso alle sostanze chimiche e l’abbattimento dell’impatto ambientale. Ricordiamo però che i materiali sintetici sono una produzione fondamentale per il tessuto produttivo nazionale ed in continuo aumento, oltre a rappresentare, in ambito tessile, oltre il 50% di tessuti ad uso abbigliamento. Il mercato dei poliammidi e delle fibre sintetiche ha dunque un ruolo trainante per l’Italia, ma, per una maggiore sostenibilità, va potenziato in termini di eco-design, quindi durabilità e riutilizzo del prodotto a fine vita, non necessariamente textile-to-textile”.

Quello che serve sono grossi investimenti in fase di scaling-up e per il reshoring. “La congiuntura globale – ha concluso Sampellegrini – sta già portando all’aumento dei costi dei materiali tradizionali e impone di essere sempre meno dipendenti da produzioni oversea. Il reshoring delle materie prime è necessario e proprio in questi mesi è diventato un asset per la Commissione Europea in ambito tessile. Le aziende cercano anche fibre da agricoltura europea e produzione europea. Aumenta inoltre l’importanza delle certificazioni sulla sostenibilità etica e ambientale”.

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