Il lusso italiano resta al palo rispetto alla crescita dei principali gruppi stranieri. A dirlo sono i dati di fatturato raccolti e analizzati da Pambianco Magazine, che confermano il rallentamento della maggior parte delle realtà indipendenti del lusso del nostro Paese tra il 2016 e il 2018, e accendono i riflettori sulla necessità di cambiamenti strutturali. L’alternativa è quella di diventare ‘prede perfette’ del mercato m&a.
L’analisi è oggetto di approfondimento nel numero in uscita di Pambianco Magazine.
“Oggi – ha commentato David Pambianco, CEO di Pambianco Strategie di Impresa -, nel lusso, aziende con un fatturato nel range da 1 a 3 miliardi di euro faticano a competere sul mercato. Sono troppo piccole per gli investimenti necessari nel retail e, soprattutto, nella tecnologia e nel digital. Le aziende italiane, negli ultimi tre anni, risultano ferme sia in termini di crescita del giro d’affari sia di redditività, a fronte di gruppi stranieri che sono cresciuti su entrambi i fronti. Questi dati pongono come assolutamente urgente e non rimandabile, per i nostri imprenditori, il tema delle ‘alleanze’ o comunque del futuro strutturale del loro gruppo”. Una prospettiva su cui pesa l’assetto proprietario: “Non sembra un caso – aggiunge Pambianco – che parecchi manager italiani siano alla guida di brand globali, mentre diverse maison italiane siano tuttora guidate da strutture familiari”.
Ad avvantaggiare le conglomerate straniere sono le maggiori possibilità di investimento in negozi diretti e in comunicazione, nonché ricadute positive in termini di notorietà dei diversi brand tra i consumatori. Non mancano, ovviamente, maison indipendenti protagoniste di una crescita solida, dalle italiane Moncler e Brunello Cucinelli alla francese Hermès. Tuttavia, in un settore volatile come la moda, le grandi holding registrano performance migliori, garantendosi, peraltro, effetti di compensazione, con ‘fenomeni’ come Gucci, per Kering, e Louis Vuitton, per Lvmh, che riequilibrano, rispettivamente, il rallentamento di Bottega Veneta e Marc Jacobs.
La differenza di passo è scritta nei numeri. Se nel 2014 le aziende italiane avevano un turnover medio di 1,6 miliardi di euro, nel 2018 questo fatturato è cresciuto del 10,6% a 1,8 miliardi circa. Ha guadagnato invece il 50% circa la grandezza media dei competitor esteri (Lvmh, Burberry, Hermès, Richemont, Tiffany & Co e Kering, solo per la divisione lusso), il cui giro d’affari, lo scorso anno, era di 14,5 miliardi di euro, contro i 9,6 miliardi del 2014.
Dopo l’exploit del 2015, quando il fatturato totale delle principali aziende del lusso italiano (il campione include i primi 15 player per fatturato) ha toccato i 27,5 miliardi di euro, a +10,6% sull’anno precedente (grazie all’effetto valutario e allo sprint cinese), il comparto ha frenato bruscamente nel 2016 (+0,3%), per poi perdere lo 0,3% nel 2017. Stabile l’andamento del 2018, quando il turnover del nostro Paese si è assestato sui 27,52 miliardi.
La situazione si è riflessa anche sulla redditività delle aziende italiane, che è rimasta flat nel periodo con un ebitda margin di circa il 18 per cento. Un valore che resta almeno 6 punti percentuali sotto i competitor stranieri.