Il comparto dello sportswear e delle attrezzature è cresciuto del 6% nell’ultimo anno, puntando sulle specialità estranee al mass market. Innovazione e nicchia non vanno d’accordo con il made in China e infatti si assiste a un ritorno della produzione in Europa, soprattutto in Serbia.
Nel suo piccolo, lo sportswear italiano è in salute. I dati presentati da Assosport a Ispo Munich, fiera leader per l’abbigliamento e le attrezzature degli sport invernali (3-6 febbraio), evidenziano un aumento del 6% per quantità vendute (sell in) nella stagione 2017/18. Tuttavia, la capacità di competere dei produttori italiani passa necessariamente per la specializzazione e per le nicchie, essendo i grandi numeri gestiti da big come Nike, che nell’ultimo anno fiscale ha realizzato ricavi per oltre 36 miliardi di dollari; l’intero sistema di Assosport, composto da 130 aziende, vale poco più di un decimo del colosso di Beaverton (4,5 miliardi di euro). Se vuole giocare la partita con la speranza di portare a casa il risultato, la squadra tricolore deve essere in grado di muoversi velocemente, come farebbe un playmaker in mezzo ai “lunghi”. La strategia passa per la capacità di innovare, anticipando i tempi di reazione della concorrenza, operando in discipline lontane dal mass market e intercettando un consumatore che dispone di un elevato potere di spesa, necessario per acquistare prodotti ad alto contenuto tecnico. In termini di operations, tutto ciò non va d’accordo con il made in China o in Vietnam, più adatto ai grandi volumi, e infatti il reshoring nello sportsystem italiano è un dato di fatto. Si tratta generalmente di un back to (Eastern) Europe, perché sono poche le realtà che possono permettersi di realizzare tutto in Italia e perché come osserva Anna Ferrino, a capo dell’omonima azienda torinese specializzata in prodotti per l’outdoor: “La filiera sportiva in Italia è sostanzialmente scomparsa, fatta eccezione per l’eccellenza della calzatura localizzata in un distretto ben preciso”. Il riferimento è a Montebelluna, capitale dello sportsystem, dove infatti continuano a operare realtà come Scarpa, specialista delle calzature per alpinismo con 100 milioni di ricavi stimati per il 2018, che tuttora dispone di una sede produttiva da 310 addetti in provincia di Treviso. O come Aku, nella scarpa da trekking e outdoor, che conserva una parte di produzione made in Italy per la fascia top e per non rinunciare al know how, formando i tecnici poi destinati alle sedi produttive balcaniche. L’outsourcing puro, nella scarpa da montagna, ha perso appeal perché le aziende preferiscono disporre, anche all’estero, di stabilimenti di proprietà, proprio per controllare i processi e garantire la qualità. E il paese più attrattivo per gli investimenti oggi è la Serbia, preferita alla Romania dove il personale, per della concorrenza dell’automotive e di altri settori, è sempre più difficile da reperire.