Non più solo estensione del business, ma vero e proprio punto di partenza dello stesso. Il web sta diventando la ‘prima casa’ dei brand della moda che, nella rete, trovano un terreno perfettamente edificabile. Si chiamano brand ‘nativi digitali’, o ‘digital native vertically brand’ (Dnvb) o v-commerce brand, come li definiscono in America, ovvero quei marchi che nascono, e vivono, online. Un fenomeno, questo, che è stato promosso in origine dai grandi portali (come Amazon e Asos), facilitati dalla propria expertise digitale. E che sta sviluppandosi oltre i ‘progenitori’, creando un sistema fiorente soprattutto in America, dove l’aumento delle vendite online (le cui stime prospettano un valore di 523 miliardi di dollari entro il 2020) va in tandem con la profonda crisi in cui navigano i retail fisici autoctoni. Infatti, Oltreoceano, si parla già di e-commerce 2.0.
I DIGITAL NATIVE VERTICALLY BRAND
Ma qual è la differenza tra i Dnvb e i player che, partiti dall’offline, hanno aggiunto l’e-commerce? I primi nascono come vere e proprie realtà direct-to-consumer, le quali gestiscono in completa autonomia l’intera filiera produttiva, dal fornitore fino al consumatore finale, estremizzando la customer experience grazie al fatto di essere stati disegnati per operare ed essere raccontati esclusivamente online. Mentre i secondi, invece, adattano semplicemente la propria realtà ‘tangibile’ al virtuale, non sempre ottenendo un risultato perfettamente integrato. Tra i plus dei Dnvb, evidenziati dallo studio ‘The Top 25 digitally native vertical brands report 2017’ realizzato dalla piattaforma Pixlee, c’è l’adozione di un modello basato necessariamente sul rapporto diretto, il quale comporta una riduzione, non solo dei costi, ma anche delle asimmetrie informative. Un esempio è Warby Parker, il brand americano di eyewear che, eliminando gli intermediari, vende i propri prodotti a prezzi più competitivi, dando anche la possibilità di provare i modelli gratuitamente a casa propria. Un altro caso è quello del brand d’abbigliamento Everlane che, grazie al direct sourcing, può praticare una politica di trasparenza rendendo visibile la sommatoria dei costi dietro ciascun capo (dalla materia prima, alla lavorazione, fino al trasporto) e del markup ad esso applicato. Tra gli altri benefici, un’enfatizzata brand experience, grazie alla combinazione di prodotto, shopper experience e customer service che, promossi insieme online, vanno a costruire il brand. La distribuzione, del resto, è un elemento chiave per i Dnvb che, assumendone la gestione diretta, dispongono sia di un maggiore controllo sullo storytelling del brand sia sulla ricezione dei dati riguardanti i consumatori. Proprio la relazione con il consumatore, che avviene anche, e soprattutto, attraverso i social network, è la chiave del successo di queste aziende, capaci di sfruttare i grandi numeri della rete pur mantenendo una connessione one-to-one. Questa nuova generazione, che ha aperto la via all’e-commerce 2.0, si lega inevitabilmente al fenomeno di blogger e influencer. Non a caso, infatti, sono molteplici i casi di star del web che hanno lanciato i propri brand partendo proprio dal successo social. Da Chiara Ferragni (con Chiara Ferragni Collection) a Mariano Di Vaio (con Mariano Di Vaio Collection), fino a Filippo Cirulli e Filippo Fiora (con Edhèn Milano), per citarne alcuni. Altri casi italiani, peraltro, dimostrano come le strategie di ‘entrata’ possano essere differenti, cioè non dipendere dal pregresso successo sui social, ma basarsi su altri driver (per esempio, la collaborazione con le fiere, vedi articolo successivo). I progetti da tenere d’occhio sono le piattaforme di Lanieri, per l’abbigliamento uomo su misura, Velasca, per le calzature made in Italy, e Tela Blu, per l’abbigliamento maschile. Le loro strategie, talvolta, hanno già portato a contaminazioni importanti con il mondo dei negozi reali.
LE GRIFFE DEI GRANDI PORTALI COME AMAZON E ASOS
Nel mondo dei ‘nativi digitali’, i protagonisti restano comunque i grandi portali dell’e-commerce, che sono i macro-player più attivi nella creazione di brand propri. Per esempio, secondo il report ‘Amazon Intelligence: Private Label’ pubblicato lo scorso aprile da L2 e riportato da Il Sole-24Ore, Amazon conta 80 private label, di cui 69 (e quindi l’86% del totale) dedicate alle categorie abbigliamento, calzature e gioielli. Di queste, 41 sono per donna, 13 per uomo, sei per bambino e nove unisex. Almeno per il momento, perché il ritmo con cui il colosso di Jeff Bezos apre e chiude nuovi brand lascia poco spazio all’esitazione. “Amazon continuerà a lanciare e chiudere marchi”, ha spiegato Cooper Smith, direttore delle ricerche su Amazon di L2. “Molti dei brand nati negli ultimi 18 mesi hanno un assortimento limitato: significa che si sperimenta molto, lanciando più idee insieme per mantenere poi solo quelle che funzionano”. Anche Asos è fortemente attivo attraverso i propri brand (come Asos 4505, Asos Edition, Asos White) che, secondo un analisi realizzata da Edited lo scorso luglio, rappresentano circa un terzo dell’offerta totale disponibile sull’e-tailer. In particolare, come sottolineato dall’analisi, i brand di proprietà consentono ad Asos di puntare a una maggiore competitività a livello, appunto, di cifre al consumatore.
di Sabrina Nunziata