Un messaggio forte sulla sostenibilità arriva dal Medio Oriente. Lo ha lanciato il gruppo Chalhoub, colosso della distribuzione di lusso con sede a Dubai, oltre 600 negozi e 11mila persone in 14 Paesi, partner dei principali brand mondiali, che la scorsa settimana ha presentato un white paper dal titolo coraggioso: “Luxury in the Gulf: a sustainable future?”. Il paper è stato portato a Londra, Parigi e, infine, a Milano, come segnale che qualcosa comincia a cambiare, anche nell’area mediorientale.
A presentare la ricerca sono stati i co-CEO del gruppo di Dubai, Anthony e Patrick Chalhoub, in una tavola rotonda con i giornalisti, accompagnati da Andrea Illy, presidente di Fondazione Altagamma, Armando Branchini, vice presidente di Fondazione Altagamma, Carlo Alberto Pratesi, professore di Economia dell’Università Roma Tre, Giorgio Lazzaro, direttore marketing di CityLife.
Patrick e Anthony sono consapevoli della sfida che stanno lanciando nell’anno del sessantesimo anniversario del gruppo. Anche perché “la prima sfida – hanno spiegato – è ancora quella di riuscire a cambiare la mentalità, in ottica sostenibile, all’interno della nostra azienda. Abbiamo varato un progetto in questo senso, e siamo arrivati a superare il team di Corporate social responsibility, per allargare la tematica su tutte le divisioni”. Il gruppo ha adottato già nel 2009 un primo progetto Chalhoub Impact, nel 2013 ha ricevuto il Csr Award dalla camera di commercio di Dubai, lo scorso anno ha aderito all’iniziativa Global Compact dell’Onu e ha presentato quest’anno il suo secondo bilancio di sostenibilità, redatto secondo i più avanzati criteri di reporting (il G4 della Global Reporting Initiative).
I consumatori stanno cambiando, è intervenuto Branchini, e “le nostre osservazioni rivelano che i social weawer (chi indossa abiti ‘social’) sono ancora una nicchia, ma il numero è raddoppiato nell’ultima rilevazione”.
Il mercato della sostenibilità resta complesso. “Non ci aspettiamo – hanno commentato i Chalhoub – che il consumatore sia disposto oggi a riconoscere un premium price a prodotti di lusso sostenibili”. Dalle attività di ricerca svolte dal gruppo in Medio Oriente è emerso che “il 65% dei consumatori del lusso intervistati afferma che la sostenibilità non è un criterio che rientra nel processo decisionale al momento dell’acquisto di articoli di lusso”. Tuttavia, l’83% degli intervistati “si aspetta che le aziende attive nel settore del lusso adottino pratiche sostenibili in un’ottica proattiva”.
Di conseguenza, sono le aziende, e quindi le storie che stanno dietro un prodotto, che possono andare a colpire quella tipologia di consumatori mediorientali definiti come ‘falcon’, giovani alla ricerca di esperienza sociale (contrapposti alle attitudini ‘cavallo’ e ‘gazzella’, rispettivamente che guardano al lusso come ostentazione verso gli altri o come autogratificazione).
Il messaggio sul lusso sostenibile arriva forse dall’area del mondo da cui meno lo si aspetta. I due Chalhoub hanno ricordato i paradossi: l’area ha la più alta ricchezza e spesa pro capite nel lusso; ha il maggior consumo di energia al mondo. Ma le cose stanno cambiando. E, oggi, prendendo come esempio le rapide mutazioni della domanda cinese, tutto avviene con grande rapidità. “Certo – hanno concluso gli imprenditori – in prospettiva sarà pragmatico creare partnership con aziende che seguono le pratiche di business sostenibile”. Più che un messaggio, è un avviso.