È sera. La famiglia americana è tutta riunita in sala, seduta sul divano davanti alla televisione nuova, comprata appena da qualche giorno. Sul tavolo c’è ‘cibo da partita’: alette di pollo, chips con salsine varie, hamburger, hot dog, pizza, torte, birra e ovviamente Coca Cola. La famiglia americana non è una grande appassionata di sport. Ma il football è una cosa diversa. E stasera tutta l’America, tifosa e non tifosa, si ferma: c’è il Super Bowl. La finale del campionato Usa di football americano è l’evento sportivo più seguito al mondo. I Seattle Seahawks contro i Denver Broncos, la sera del 2 febbraio 2014 attirano una platea di 110 milioni di spettatori.
In questa atmosfera densa di stelle e di strisce, durante il famoso halftime, l’intervallo tra primo e secondo tempo in cui uno spazio pubblicitario di mezzo minuto costa in media 4 milioni di dollari, spunta la voce roca del menestrello che tren’anni fa (forse 40) era il simbolo dei movimenti di protesta americani. Ecco Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan. Eccolo che racconta l’America in 120 secondi. Eccolo. Dove? In uno spot della Chrysler.
“C’è qualcosa di più americano dell’America?”, si chiede il cantante settantatreenne mentre si susseguono spezzoni amarcord dagli anni 50 ad oggi, con numerosi riferimenti alla storia e al progresso a stelle e strisce. Tra le note di “Things Have Changed”, canzone con la quale vinse l’Oscar nel 2001, un Bob Dylan in versione patriottica cammina per le strade di Detroit celebrando la città che “ha creato l’auto” omaggiando così l’orgoglio americano: “Puoi cercare in tutto il mondo per le cose più belle, ma non troverete niente come la strada americana e le creature che vivono su di essa. […] Lasciate che i tedeschi facciano la vostra birra, che gli svizzeri facciano i vostri orologi e che in Asia vengano assemblati i vostri telefoni: noi costruiremo le vostre auto”.
Prima di Dylan, altre star sono apparse negli spot Chrysler. Altri condensati di nazionalistismo. Altre apparizioni a effetto durante il Super Bowl. Nomi come Clint Eastwood ed Eminem. L’attore, due volte premio Oscar, nel 2012 era stato protagonista di uno spot sulla rinascita di Detroit e, quindi, sul risorgere dell’industria automobilistica accendendo il dibattito negli States con un annuncio più di taglio politico che commerciale. Eastwood, con il suo tipico ghigno, invitava in modo molto americano a vivere la rimonta perché c’è sempre un secondo tempo da giocare: “Detroit ci sta dimostrando che ci si può rialzare, e ciò che è vero per loro, è vero per tutti noi. […] Questo Paese non può essere atterrato con un pugno. Sì, è il secondo tempo per l’America”.
L’anno prima, a raccontare la forza e l’orgoglio della città travolta dalla crisi economica, era stato, invece, il turno del rapper Eminem che lanciò lo slogan “Imported from Detroit” sulle note della sua “Lose yourself”. “Una città che è stata all’inferno ed è tornata che cosa ne sa del lusso?”, diceva la voce narrante. La risposta viene dal rapper che appare solo per pochi secondi nel finale, con il dito puntato verso il pubblico dicendo: “This is Detroit, This is What We Do”, questa è Detroit e questo è ciò che facciamo.
È notte fonda, i Seahawks vincono il primo Superbowl della loro storia contro i Broncos per 43-8 . La famiglia americana si addormenta con il sogno americano in testa. Viva “l’american pride”.