Un pastorello kaldi, circa 2400 anni fa, in Etiopia, notò che le sue caprette, dopo aver mangiato delle bacche selvatiche, erano più vispe del solito. Incuriosito, ne provò qualcuna, e all’istante si sentì più energico. Un monaco che passava di lì, anche lui, non resistette alla curiosità, e decise di assaggiare quella bacca rossa. Sveglio e concentrato, trasmise il segreto del caffè ai confratelli e ben presto a tutti i monaci dell’Etiopia.
Questa leggenda sulla nascita del caffè non dice se quel pastorello, o quel monaco, assaporando la bacca selvatica, si accorsero di “una struttura marcata e dall’intenso aroma floreale, in cui si possono cogliere il retrogusto di miele e datteri e le note di ciliegia matura”. La definizione, due millenni e mezzo dopo, è quella di cui si fregia Lavazza che, qualche tempo fa, ha pensato di lanciare il suo primo monorigine 100% arabica andando a ripercorrere proprio le tracce di quella leggenda. Che porta alla terra natale del caffè.
Secondo la ricostruzione, infatti, la bevanda nera tra le più apprezzate (e consumate) al mondo, trae le proprie origini dall’Africa orientale e, più esattamente, dalla zona meridionale dell’Etiopia. Geneticamente, infatti, quasi tutto il caffè del mondo proviene da Kafa – la regione etiope da cui gli etnobotanici ritengono che la miscela prenda il nome -, un luogo in cui le piante di caffè crescono spontaneamente nella foresta pluviale e le cui ciliegie sono raccolte a mano. Tanto che, nel 2010, Kafa è stata riconosciuta dall’Unesco come “biosphere reserve”, diventando così patrimonio dell’umanità.
Qui ha avuto origine la qualità arabica, grazie alle condizioni climatiche ideali e al lavoro della popolazione, soprattutto femminile, che seleziona una a una le ciliegie. Per secoli, in questa parte di mondo e, via via, nelle zone in cui arrivava a espandersi, il caffè è stato mangiato e non bevuto: le sue bacche erano assunte sia intere che sminuzzate e poi mescolate al “ghee”, una sorta di burro chiarificato. Al suo consumo, spesso, erano associati riti – su tutti, quello della buna, fortemente connesso al valore della famiglia e della casa-, preghiere e meditazioni o, in alternativa, scontri tribali le cui performance erano fatte dipendere dall’assunzione della bevanda.
Niente di diverso, in fondo, da quanto accade molti secoli dopo nel mondo occidentale, frenetico a tal punto da aver bisogno di parecchie tazzine di caffè al giorno.