Fare banca ai tempi della crisi è un'operazione algebrica che tende ad escludere più che ad includere. Mentre l'industria tedesca Porsche licenzia conti dove l'utile è superiore al fatturato grazie a operazioni di finanza, il sistema bancario – nel mezzo della grande glaciazione dovuta ai titoli tossici – a quei sistemi non può fare ricorso.
Operazioni di trading sui derivati e relativi collocamenti vanno esclusi, limitati, e il bilancio nutrito con antiche ricette: un passo indietro per continuare ad andare avanti… Se poi l'istituto di credito in questione, Intesa Sanpaolo, primo in Italia per numero di sportelli, ambisce al ruolo di «banca per il Paese», alle esclusioni si sommano i rischi. E si legittimano previsioni negative sul futuro, legate a una semplice equazione: se Intesa è la banca del Paese e il Paese entra in recessione, a pagarne le conseguenze sarà questa banca più di altre.
«La smentita viene dai numeri – spiega Gaetano Miccichè, responsabile Corporate e investment banking di Intesa Sanpaolo, l'uomo a cui Corrado Passera ha affidato la guida della divisione al fianco delle imprese italiane -. Cifre che in questi ultimi tre anni ci danno ragione. Il nostro principale obiettivo è quello di essere partner della clientela, individuando volta per volta gli interventi più adatti in una logica di relazione di medio-lungo periodo; tutto ciò lo realizziamo attraverso la nostra capillare presenza territoriale sia in Italia che all'estero».
I numeri dunque, di questa presenza territoriale. Intesa è presente nel capitale di circa una sessantina di imprese italiane. Le prime 39, valgono il 98% dell'impegno complessivo. Le altre infatti raccolgono partecipazioni residuali, in alcuni casi pari a poche decine di migliaia di euro. Quattro sono invece le partecipazioni strategiche: Telco (che porta la banca a controllare il 10,7 per cento della società che ha in portafoglio il 23,6 per cento di Telecom Italia), Pirelli & C., Cai e Rcs MediaGroup (editore del Corriere della Sera).
Il totale delle partecipazioni (istituzionali più industriali) ammonta a circa 2,6 miliardi di euro. Se si escludono le partecipazioni istituzionali, per le quali l'impegno ammonta a circa 1,2 miliardi di euro, le partecipazioni industriali valgono circa 1,4 miliardi. Una cifra che si può ulteriormente suddividere in 400 milioni di partecipazioni in private equity puro; 700 milioni di partecipazioni in venture capital e sviluppo; 200 milioni in fondi di private equity gestiti da terzi e un'ottantina di milioni in partecipazioni strumentali e fondi specialistici.
Alle prime 60 imprese partecipate direttamente si aggiungono 19 altre società partecipate attraverso tre fondi regionali, su cui sono stati investiti circa 130 milioni di euro. I fondi hanno competenza territoriale e l'intera loro attività è riassunta nella tabella di pagina 7. Nel complesso, nel corso dei 33 mesi trascorsi dal gennaio 2006 al 30 settembre scorso gli investimenti sono stati di circa 2,1 miliardi di euro, i disinvestimenti pari a 3 miliardi con un saldo positivo di circa 900 milioni di euro, di cui 600 derivanti da plusvalenze e dividendi.
I conti tornano. O almeno sono (fin qui) tornati. Il problema semmai è per il prossimo futuro. Per i prossimi mesi di recessione e questo 2009 che viene annunciato come sciagurato, anche se la banca rivendica una propria funzione anticiclica, sebbene da vivere più da officina capace di rimettere ordine nei conti, piuttosto che da Pronto soccorso per le imprese.
«Per quanto concerne gli interventi di merchant banking – spiega Miccichè – il nostro ruolo è sempre quello di una banca e quindi non assimilabile all'attività di un fondo di private equity. Una delle principali differenze è rappresentata dal fatto che interveniamo in aziende ed in gruppi di cui da molti anni conosciamo l'azionariato e il management, i prodotti e tutte le suscettività societarie. Inoltre, a differenza di un fondo di private equity che mediamente partecipa al capitale di rischio di una società dai tre ai cinque anni, possiamo permetterci una notevole flessibilità temporale in quanto il periodo di investimento non viene determinato da regole statutarie ma in funzione delle opportunità che i mercati volta per volta offrono». Intesa Sanpaolo investe in presenza di 3 requisiti fondamentali, sottolinea Micciché: «evidenza della profittabilità del business, certezza di una via d'uscita (cessione delle quote a un fondo, riacquisto dall'azionista di maggioranza o collocamento in Borsa) e partecipazione alla governance della società».
Una scelta di crescita e di maturità. Mentre il vincolo temporale, modulato sull'andamento dei mercati e la tenuta complessiva dell'economia, diventa la migliore assicurazione per i mesi a venire. Disinvestimenti già programmati e invece rinviati – uno su tutte, Prada – sono visti come un rallentamento del percorso di accompagnamento, non come un incidente. «In nessun caso – conclude Miccichè – il ciclo economico modifica le nostre scelte di investimento. Il business alla fine è sempre un problema di uomini�». Soprattutto ai tempi della recessione.
Estratto da Corriere della Sera del 15/12/08 a cura di Pambianconews