Probabilmente non esiste una strategia univoca per contrastare efficacemente il fenomeno dilagante della contraffazione e della poca trasparenza che affligge gran parte dei prodotti tessili d'importazione provenienti dall'Oriente. Ma la situazione attuale suggerisce che col passare del tempo diverrà indispensabile lavorare come sistema, a livello nazionale e internazionale, costruire alleanze che valichino i confini della grande impresa e dell'amministrazione pubblica, incoraggiare lo sviluppo di un tessuto economico e industriale che sappia difendersi dagli assalti della concorrenza scorretta senza trascendere nel protezionismo. Una struttura, insomma, capace di battersi in un mercato sempre più allargato nel pieno rispetto delle regole del gioco, puntando in ogni caso all'eccellenza e a elevati standard di qualità percepibili anche dal consumatore finale. In ballo c'è il patrimonio tecnologico e culturale del made in Italy.
Questo è quanto è emerso durante la conferenza “Concorrenza leale e tutela del consumatore, due chiavi di successo per l'internazionalizzazione”, tenutasi venerdì scorso a Cernobbio. Il convegno, organizzato da Seri.co Tessile di Como e MF conference, ha visto al centro dei lavori la presentazione dei risultati dell'indagine sulla composizione dei capi di seta lavorati in India, in Cina e in altri paesi extraeuropei condotta dal Laboratorio del tessile di Como e finanziata dall'Unione industriali di Como insieme con la Stazione sperimentale per la seta. Uno studio che ha messo a fuoco scenari a dir poco allarmanti: se il 25,6% dei capi analizzati non risulta conforme alla normativa cogente in materia di etichettatura di composizione fibrosa e il 15,8% dei campioni contiene azocoloranti cancerogeni, il 9,8% dei prodotti presi in considerazione è fuorilegge rispetto a entrambi i parametri. Dunque, secondo la ricerca, il 52,1% di quanto viene importato in Italia non sarebbe conforme ai requisiti legislativi. Non sono poche le contromisure che l'imprenditoria tricolore e la pubblica amministrazione hanno studiato per contrastare questa tendenza.
“Il marchio Seri.co nasce per garantire i prodotti serici italiani”, spiega Dario Garnero, presidente della commissione per il disciplinare tecnico del marchio Seri.co, “certificandoli secondo rigidi standard qualitativi che tutelano sia il versante dell'offerta che quello della domanda. Ma aiutare le nostre imprese a concorrere in un mercato che purtroppo ha queste caratteristiche vuol dire anche vigilare perché diventino prioritarie la salvaguardia della salute dei clienti e una corretta informazione sulla provenienza e sulla composizione fibrosa dei capi. Da questo punto di vista le nostre aspettative, come evidenzia la ricerca, sono state tradite. Ma attenzione”, continua Garnero, “quando si parla di parametri di qualità non rispettati vanno prese in considerazione anche le aziende nazionali che operano sotto il livello considerato accettabile dalla nostra certificazione e, da questo punto di vista, possiamo affermare con soddisfazione che entro i confini della Penisola è notevolmente aumentata l'attenzione alla qualità del prodotto. Essenzialmente perché dietro l'esibizione del marchio c'è la volontà di progredire in maniera costante, di battersi sul mercato, di sancire l'eccellenza tecnologica e culturale che contraddistingue il nostro territorio”.
Anche Paolo Zegna (nella foto), presidente Smi-Ati, Federazione imprese tessili e moda italiane, è convinto che concorrenza leale e tutela del consumatore siano due obiettivi da perseguire innanzitutto in ambito nazionale: “Bisogna per prima cosa eliminare le disfunzioni che sono all'interno del mercato italiano e dimenticare la parola protezionismo. Soprattutto si dovrà farla dimenticare all'estero, perché contribuisce a diffondere una pessima immagine del nostro settore tessile. Parlerei più che altro di legittima difesa, visto che le regole ci sono e vanno fatte rispettare. E per raggiungere un simile scopo è necessario agire in maniera coordinata, lavorare come sistema, armonizzando le iniziative e i dispositivi di rilevazione, come per esempio questa indagine, sfruttandoli non solo a vantaggio di un determinato distretto produttivo, ma per fotografare un'area molto più estesa”.
Estratto da ItaliaOggi del 7/10/06 a cura di Pambianconews