Di Lacoste a prezzi superscontati, ma di ottima qualità, occorre dire, ne girano un pò troppe, certamente molte di più di quelle che l'azienda francese produce e commercializza in Cina (ma non solo in Cina). Così la company dell'abbigliamento casual ha pensato di dare un taglio agli abusi e di scomunicare gli infedeli che hanno osato sfruttare quel piccolo logo tanto famoso.
Le linee del fronte aperte dagli studi legali sono due. Lacoste prima si è scagliata contro una “istituzione” adorata dagli stranieri in cerca di affari e di divertimento (che altro è una trattativa per una camicia o una polo a prezzo stracciato?) e ha chiamato in tribunale niente meno che il Mercato della Seta, paradiso dello shopping nella capitale del Celeste Impero. «Qui si vendono merci contraffatte». Lacoste ha chiesto alla seconda corte intermedia del popolo di Pechino di essere risarcita di 11 mila euro da ciascuno dei rivenditori (alcune centinaia) che operano nei box del Mercato della Seta. Poco importa che lo stesso Mercato della Seta sia una meta fuori dai programma ufficiali ma sempre imposta da delegazioni governative e imprenditoriali occidentali (quanti ministri e capi d'azienda accompagnati da consorti e da coloriti codazzi di segretari e segretarie) che barattano pomeriggi interi per uscire con valigie piene di tessuti, pantaloni, giacche, gioielli e orologi. Lacoste si è stufata dell'andazzo. Così, almeno, dà a vedere. Perché poi, sotto-sotto, di imprese, anche marchi famosi, che stanno volentieri al gioco sporco (produzioni a bassissimo costo appaltate sottobanco) ve ne sono e nemmeno pochissime. Si aprirebbe un dossier di sorprese imbarazzanti per i bei nomi dell'industria europea ed americana se i cinesi aprissero bocca.
Lacoste, inoltre, ha indicato a un altro tribunale del popolo, sempre a Pechino, il nome di tre concorrenti cinesi addosso ai quali puntare le artiglierie (due aziende sono nella capitale, una nel Guangdong, il ricco sud). «Hanno contraffatto il nostro marchio». Lacoste chiede un risarcimento simbolico, 123 mila dollari, ma quel che conta è il principio da imporre. Chi bara paga.
Estratto da Corriere della Sera del 2/08/06 a cura di Pambianconews