Ernesto Gismondi, ingegnere e designer, è soprattutto il patron di Artemide, una delle aziende storiche della luce che con «Pipe», l'ultima lampada sospesa disegnata da Herzog & De Meuron, ha appena vinto il prestigioso Compasso d'Oro. Un premio che arriva in un momento di particolare delicatezza per il mercato del design e del lusso, con questo accenno di ripresa economica che non bisogna perdere; e con i grandi temi che alla ripresa e al futuro delle aziende sono collegati, dalle delocalizzazioni produttive al cambiamento del mercato e dei consumatori.
Ingegner Gismondi, di cosa hanno bisogno in questo momento le aziende italiane, in particolare quelle del design?
«Innanzitutto di essere serie, di soddisfare le regole, perché a questo punto della storia industriale bisogna ripartire assolutamente da un concetto più aperto e profondo, quello delle “funzioni al contorno”, prevedendo cioè non solo le regole a cominciare dal prodotto in sé, che naturalmente deve essere di qualità, ma anche pensando a quelle che gli stanno intorno. Così il prodotto sarà buono anche perché non farà danni durante il processo di fabbricazione, non inquinerà dal momento in cui si fa la ricerca fino alla consegna, packaging compreso, e poi non dovrà avere consumi energetici incontenibili. Una serie di operazioni da tenere presenti quando si incomincia a progettare, senza dimenticare poi quella di fare un prodotto che sia accettato, trovi una collocazione nel mercato e che consenta di vendere con profitto, ma senza truffare».
Poi, però, ci vuole la forza e la capacità di penetrare il mercato.
«Certo, e per questo bisogna darsi da fare. Una grossa mano ce la stanno dando Confindustria con Altagamma, speriamo che riescano a trovare la formula magica per trasmettere al consumatore del mondo la nostra cultura della qualità del prodotto, contro quella dilagante della copia. Una missione importante, vitale, che avrei svolto volentieri anch'io, insieme ai bravissimi della squadra (la task force per il made in Italy, ndr), se solo Montezemolo mi avesse chiamato».
E sulla delocalizzazione cosa ne pensa?
«Sull'onda dell'esperienza degli altri Paesi industrializzati, e vista la situazione di mercato, è una delle possibilità percorribili se fatta con intelligenza e gradualità, non possiamo certo diventare solo il Paese delle gondole e dei mandolini. Preferirei, però, cominciare a parlare di internazionalizzazione, ovvero di invasione pacifica dei nostri prodotti acculturando il mercato mondiale, portandolo cioè al nostro livello di gusti, e sola la via che intravedo per arrivare a questo traguardo passa necessariamente attraverso la riqualificazione e la formazione della nostra forza lavoro».
Estratto da CorrierEconomia del 27/09/04 a cura di Pambianconews