Applaudire non è proprio il modo preferito di esprimere consenso da queste parti. Ma la prima volta di Giorgio Armani in Cina, per l'occasione carinamente vestito da cinese, vale bene un'eccezione. Per Armani, quasi emozionato, c'è il sapore d'un nuovo esordio. Prima la sfilata, poi l'inaugurazione d'un grande negozio in un bel palazzo al Bund, il cuore coloniale della città, infine una movimentata festa fino a notte. Il tutto sotto i grattacieli e le luci che, fra New York e Blade Runner, hanno spinto Shanghai in testa alla hit parade delle metropoli pure come simbolo d'un nuovo mercato da conquistare. Scatta l'attrazione fatale? «Questa città mi piace, conviene lo stilista. Venir qui a produrre qualche linea, magari partendo dai jeans, sarebbe ottimo per i costi. L'importante è garantire la qualità. Contatti? Ne abbiamo avuti, vedremo come svilupparli».
«Volete sapere la verità?, confida ai giornalisti italiani. Mi farei da parte soltanto se mi venisse un coccolone e facciamo le corna. A luglio suonano i 70 ma sono soltanto a metà strada. L'ingresso in Borsa non m'interessa perché di quattrini ne abbiamo. Nuovi investimenti? Sono un tipo da soldi sotto il materasso, caso mai mi piacerebbe produrre quel famoso film sulla mia vita di cui si parla da tempo». I giornalisti cinesi seguono in laico silenzio le spiegazioni e il volteggiar di mani dello stilista. Ma l'emozione non esclude domande dirette e quasi birichine.
«Signor Armani quando andrà in pensione? Ci sono limiti di età per un disegner di moda?», gli chiedono con il perfido candore degli orientali che «vedono» l'uomo dell'occidente decrepito anche a 40 anni. Quasi paterno, lui conviene che a una certa età l'ispirazione può affievolirsi anche «se io mi sento ancora nella fase di crescita – schiocca sorridendo – e se rispondo in questo modo un po' spudorato è perché pubblico e conti economici me lo consentono». Ci vuole altro. «Signor Armani non parla inglese?», «Perché è così severo con tutti?», «Lei insegna il lusso ma sta sempre in t-shirt…», «Non sono troppo cari i suoi vestiti?».
Divertito come fosse fra scolaretti (gli asiatici sembrano sempre giovani) inchinanti e irriverenti, lo stilista tiene botta: «Il mio inglese, al contrario del francese, è confidenziale e quindi può zoppicare. Non sono così arrogante come si crede, la verità è che lavoro molto, ho sempre avuto senso del dovere ma so sorridere. La t-shirt? è la mia vera tuta di lavoro, non sono un tipo mondano da smoking, preferisco la praticità. E i prezzi dei miei vestiti variano fra diverse linee per tutte le tasche». Poi, in contropiede, la zampata: «Vi ammiro anche perché siete bravissimi a copiare. Ma mi raccomando, imparate ad avere idee vostre».
Estratto da Corriere della Sera del 18/04/04 a cura di Pambianconews