«Una crisi senza precedenti che per il momento non dà nessun segno di ripresa». Alessandro Biffi, Presidente di Federorafi non fa troppi giri di parole: «Le previsioni, nonostante l’imminenza delle festività, non sono buone. Andando avanti la situazione non potrà che peggiorare». L’export di gioielli e oreficeria ‘’made in Italy’’ negli ultimi nove mesi è crollato. Il colpo più pesante è arrivato dagli Stati Uniti, dove da sempre l’Italia vende circa il 30% della sua produzione, e dove negli ultimi nove mesi si è registrato un calo del 47%. E ancora: Hong Kong ha comprato il 39% in meno, il Portogallo ha esattamente dimezzato le importazioni. Nella lunga lista di dati negativi spiccano soltanto la Russia e la Svizzera con un aumento rispettivo negli acquisti dell’8,1% e del 3%. La concorrenza cresce, e paesi un tempo innocui sono riusciti a conquistare grosse fette di mercato e a diventare agguerriti concorrenti. Le importazioni dal Libano (+21%), dai Paesi Bassi (+57%) da Israele (+52%) e dalla Turchia (+52%) sono cresciute, così come quelle dalla Cina e da Hong Kong.
Insomma, il ‘’made in Italy’’ nel settore orafo vacilla, il ricorso alla cassa di integrazione rispetto al 2002 è triplicato, molte aziende di piccole e medie dimensioni nei tre classici distretti produttivi, Arezzo, Vicenza e Valenza, hanno chiuso o sono in procinto di farlo.
Sotto accusa anche il dollaro, troppo debole rispetto all’euro, ‘’reo’’ di aver fatto lievitare eccessivamente il prezzo della merce italiana. E mentre i produttori di gioielli classici e catene cercano di trovare soluzioni e di affrontare i mercati con nuove strategie, il settore che sta a cavallo tra gioielleria e bigiotteria, quello dell’argento, dell’acciaio, del caucciù e delle pietre dure, è l’unico a dare soddisfazione: «C’è un mercato nuovo, spiega Stefano De Pascale di Federorafi, che non è più neanche tanto di nicchia, e che sta andando bene, soprattutto nella fascia medio bassa. Questo genere di prodotto nuovo e più fantasioso ha raccolto le esigenze del consumatore».
Tra i problemi segnalati nel settore c’è quello del marchio, o meglio dell’assenza di marchio e della scarsa riconoscibilità del prodotto. Tranne per alcuni casi eclatanti (Bulgari in primis), l’Italia, diversamente da quanto è successo con la moda, non si è mai imposta sui mercati con firme importanti: «Se si pensa, osserva Alessandro Biffi, che il 70% del prodotto italiano è destinato all’esportazione e che di questo la stragrande maggioranza delle persone neanche sa da dove arriva si capisce come mai la concorrenza stia vincendo, proponendo prodotti simili a costi inferiori». E a proposito di concorrenza, particolarmente forte da parte di Turchia, India, Tailandia, Israele e Messico, Biffi fa notare che: «Non si tratta del solito discorso della mano d’opera a basso costo: siamo di fronte a vere e proprie strutture estremamente competenti, un sistema di imprese molto complesso e molto supportato dai governi di appartenenza. Noi italiani non siamo assolutamente in grado di delocalizzare la produzione. E’ molto più facile che siano gli altri ad aggredirci dopo aver imparato. Ed è evidente che al rivenditore come al consumatore finale quello che interessa è il costo minore».
Estratto da Affari & Finanza del 24/11/03 a cura di Pambianconews