Johann Rupert sale di persona sulla cabina di comando di Richemont per imporre una virata epocale al primo gruppo mondiale dei gioielli e degli orologi. Obiettivo: fare pulizia nell'attuale management, riordinare una struttura spesso pletorica e comunque frazionata in cinque sedi decisionali in giro per il mondo, riuscire a tagliare almeno del 20% i costi di gestione. Sono proprio i costi a rappresentare, attualmente, il vero anello debole di una realtà ché ha chiuso lo scorso esercizio con utili netti in flessione del 22% a quota 642 milioni di euro.
Una frenata che a livello operativo è arrivata a toccare il 46%, e che ha spinto Rupert, primo azionista, a prendere personalmente le redini del gruppo. Il che accadrà formalmente da ottobre, quando l'attuale ad Alain Dominique Perrin uscirà di scena, dopo aver annunciato in maggio le proprie dimissioni. «Sono state fatte scelte molto sbagliate», ha detto recentemente Rupert. Si riferiva al cattivo andamento dei marchi della moda Lancel e Dunhill, ma anche a Cartier, alla chi guida il manager sudafricano ha richiamato di gran carriera il suo braccio destro Franco Cologni, da quattro lontano da incarichi operativi all'interno del gruppo. Cartier ha pagato la scelta di alzare l'esclusività dei prodotti nel 2000, in un momento in cui il settore si preparava a frenare.
«Rupert questo rallentamento, sottolinea Cologni, l'aveva predetto; ma non fu ascoltato». Un allarme ignorato al punto che, sempre nel 2000, Richemont pagò gli orologi della Lmh qualcosa come 1,2 miliardi di euro: «Li pagammo il 50% di troppo», sostiene la coppia Rupert-Cologni. Il valore di Lmh è stato azzerato nel bilancio presentato il 5 giugno con le nuova contabilità Ue. è quasi un segnale di ripartenza. Insomma, il mercato è cambiato. Come cambierà Richemont, conclude Cologni, «sarà chiaro entro l'autunno». Una rivalsa? «No, conclude Cologni, una ristrutturazione come si deve».
Estratto da Finanza & Mercati del 15/07/03 a cura di Pambianconews