A che punto sono le fashion school in Italia e nel mondo? A chiederselo è l’Istituto Marangoni che, oggi a Milano, ha presentato la prima inchiesta sull’evoluzione dei modelli organizzativi nella moda per chiarire e analizzare il ruolo della formazione nel fashion system. L’istituto ha allestito ‘First Fashion Education Market Monitor Summit’, evento in cui sono stati svelati i risultati di una ricerca realizzata in partnership con Deloitte che ha fatto luce sul ruolo delle scuole di moda nazionali e internazionali all’interno del sistema.
“Il report – dichiara a PambiancoNews Roberto Riccio, group managing director di Istituto Marangoni – era stato inizialmente realizzato per nostro uso interno, ma, dato il valore intrinseco, meritava di essere diffuso per fare chiarezza sul mondo delle fashion school e sul legame che hanno oggi con l’industria della moda”.
Il mercato della fashion education su scala globale, spiega la ricerca, vale 760 milioni di euro e vede una crescita media annua ponderata del 6% (CAGR 2012-16) trainata principalmente dall’Asia Pacific e dall’Europa che registrano dei tassi di sviluppo superiori al mercato complessivo. In Italia, il mercato del fashion education vale 75 milioni di euro con un tasso di crescita medio annuo del + 9% (Cagr 2012-16). Le scuole italiane coprono una quota di mercato su scala mondiale pari a circa il 15%, in questi ultimi anni in forte crescita per effetto di una maggiore internazionalizzazione. Le scuole francesi guidano la classifica del fashion business placement, anche se l’offerta italiana sta migliorando.
“Le fashion school italiane – spiega Riccio – sono molto forti nell’ambito del fashion styling, presumibilmente perché lo styling è nato qui da noi. Per quanto concerne il fashion design siamo in un ottimo posizionamento, anche se a volte non brilliamo come gli istituti inglesi. In materia di fashion business, invece, c’è molta confusione; a mio avviso, l’entrata nel panorama competitivo di scuole non specializzate, come Bocconi, ha creato modelli in cui si insegna moda perché legata al business, ma senza la comprensione dei modelli della moda che solo una fashion school può fornire. Gli stessi studenti sono l’esempio di quello che un istituto può erogare, una scuola di business difficilmente può essere cool come una in cui si insegna anche business della moda, ma che riserva al proprio core business aspetti creativi della didattica”.
Tra le priorità organizzative delle fashion corporate si evince lo sviluppo di nuove figure professionali che favoriscano la congiunzione tra il mondo creativo verso quello business, e di figure che possano assumere il ruolo di ‘brand identity ambassador’. Per sostenere l’evoluzione delle aziende del settore moda, le scuole indirizzano in maniera critica il percorso di formazione e carriera degli studenti attraverso un programma didattico coerente con le mutazioni del mercato e un dialogo costante e costruttivo con la industry del settore. “Noi scuole – continua Riccio – dovremmo soffermarci di più sui corsi, sui curricula, essere meno teorici e più pratici. Parlare di più con l’industria, un contatto maggiore e continuo che deve essere presente con testimonianze aziendali come workshop per gli studenti. Cercare di rispondere ai nuovi paradigmi, come l’e-commerce. Le scuole forse non sono abbastanza up-to-date per fare questo”.
Anche le aziende, soprattutto quelle italiane, dovrebbero credere di più nella formazione specializzata: “Abbiamo chiesto ad alcune realtà nostrane se sponsorizzerebbero lo studio presso una fashion school: solo il 40% si è detto favorevole, il 60% invece non crede in questo modello. L’industria italiana ha poca fiducia nelle fashion school mentre l’industria inglese ci crede di più, stanziando premi, promuovendo manifestazioni sponsorizzate dalle aziende”.
All’incontro, patrocinato da Camera Nazionale della moda e Regione Lombardia, hanno preso parte, tra gli altri, Brunello Cucinelli, Santo Versace e l’assessore Cristina Tajani.